di Lizia Dagostino
La scrittura di Anna Maria Ortese è unica, profonda e affascinante come la sua vita, ai margini dei clamori, dei pettegolezzi, degli eventi sociali. Un talento solitario che non ha mai avuto bisogno di validazioni esterne, nè di riconoscimenti.
Nel panorama del Novecento italiano, Anna Maria Ortese è una scrittrice rimasta ingiustamente marginale e liquidata frettolosamente nelle antologie scolastiche. Nata a Roma, nel 1914, in una famiglia modesta e numerosa, interrompe gli studi, proseguendo da autodidatta il percorso di formazione. Appassionata di letteratura, segue la vocazione verso una scrittura riconosciuta stilisticamente eccellente, molto tardi, da una critica distratta. Nel 1967 è la terza donna a vincere il Premio Strega, dopo Morante e Ginzburg, con il romanzo Poveri e semplici.
Oltre al poeta scrittore Dario Bellezza, Ortese ha pochi amici, specialmente dopo aver scelto l’esilio volontario da Napoli. Ingenuamente, ne Il mare non bagna Napoli, ritrae e critica le miserabili personalità culturali del tempo, con tanto di nome e cognome. Accetta, come conseguenza naturale, l’emarginazione dai circuiti letterari del tempo e l’ostracismo culturale.
La sua estrema sensibilità e sincerità, la spinge a esporsi sempre dalla parte sbagliata della storia. Spaesata e lontana dalla realtà, nel 1997 chiede pietà per il gerarca fascista Erich Priebke, suo coetaneo, sottoposto ad un nuovo processo per le responsabilità nell’eccidio delle Fosse Ardeatine: lo rassomiglia a un lupo ferito, visto su una foto, contro cui si accanivano, con i loro bastoni, i contadini arrabbiati per le stragi di pecore che lo avevano reso odioso. Le risposte severe, intransigenti, beffardamente ostili di Carlo Bo, di Cesare Segre, di Erri De Luca, non si fanno attendere.
Ortese propone una diversità eccessiva degli esseri umani colpevoli, vilipesi e reietti. È nel suo sguardo deformato, esageratamente intimo e profondo, il riscatto dell’umano da indagare e da rigenerare, comico e tragico, crudele e misericordioso, da contrapporre agli inganni della storia dei vincitori. Per la Scrittrice, la memoria soggettiva, il vissuto psicologico, la verità personale ha più valore della realtà storica oggettiva. Anna Maria rimane, senza adeguamenti e riduzioni, la “zingara sognante” nominata da Pietro Citati.
In molti romanzi, le magiche e fantastiche allegorie poetiche consentono all’Autrice la fuga di realtà, non dalla realtà, ma una presa di coscienza dolorosa, attraverso la solitudine che affina l’approfondimento. Affonda nell’esperienza più irreale dell’irreale; agisce la fuga di realtà, verso la realtà stessa; copre per svelare, nega per riconoscere, perde per assaporare visioni differenti, si allontana per affinare lo sguardo sconfinato e immaginifico.
In una società arrogante ed escludente, Ortese conosce e abita la quiete che rende le tre figlie di don Mariano Civile ne Il cardillo innamorato, vive, sensibili e mute come animali. Sono i monacielli, le fanciulle-uccelletto, gli spiriti della natura, le bestie-angelo, le serve, i poeti, i difettati, i bambini e i vecchi, è Damasa Figuera de Il porto di Toledo a ribaltare il paradigma vittimario con una comprensione mostruosa e autentica dell’umanità sofferente e gioiosa. Certo, la prima edizione del libro viene portata al macero. Gli altri testi, solo nel 1988, anno della sua morte, vengono ristampati da Adelphi, grazie all’illuminato Roberto Calasso.
La comunità umana ai margini, separata, attraverso gli occhi della Scrittrice, diviene una folla inesplorata dalla mente sospesa, colpevole solo per la giustizia del mondo, porosa e trasparente, a trascendere la legge, l’amor di patria, i ranghi sociali. Esistono molte prospettive, nuove e inconsuete, da cui guadare il mondo e abitarlo: il movimento verso la coscienza profonda può creare smarrimento, estraniamento. La meraviglia per il vivente prevede il cammino attraverso le ombre e gli inferi.
Le difficili condizioni economiche, isolano ancora di più le due sorelle Ortese conviventi. In Sonno e veglia è la stessa Anna Maria a ribadire: “Grande è la malinconia che provo nel sapermi appartenente alla specie umana… E penso di non essere un vero scrittore se, finora, non mi è riuscito di dire neppure lontanamente in quale terrore economico – e quindi impossibilità di scrivere – viva, in Italia, uno scrittore che non prenda gli Ordini. E che non abbia avuto, nascendo, nulla di suo, neppure un tetto”.
Mi convince e mi appassiona la visuale esistenziale di una donna solitaria e antipatica, un’artista che non prende ordini, come lei stessa narra di sé. Il testo inedito che ripropongo integralmente (è il vantaggio della rivista online), Il silenzio delle donne, viene trasmesso radiofonicamente il 23 marzo 1989 da Radio Due 3131*.
Anna Maria è silenziosamente isolata dal contesto, vive chiusa in sé stessa rispetto al mondo sociale e politico impenetrabile e ostile. È una persona che provvede faticosamente alla sua evoluzione, al cammino di liberazione, confidando nella possibilità della parola scritta, del pensiero indipendente e feroce, fino ad apparire inadeguata socialmente, assumendo la responsabilità delle valutazioni, delle scelte di contenuto e di stile. Rende una testimonianza integra della prospettiva psicologica radicale rispetto all’umano feribile, fragile, gettato nell’esistenza.
Non è coraggiosa come in una arrampicata sociale, non alza la posta in gioco per sfidare l’incomprensione altrui, rimane leale alla sua natura, fedele al nucleo esistenziale, tenace nella sua ricerca letteraria, confidente nelle sue capacità professionali, certamente non commerciali.
“Solo lavorando, dolorando, sbagliando si viene a conoscere il proprio volto… ho avuto a che fare con un po’ di miseria. Ma il coraggio è sempre intero” scrive a Mattìa, Marta Maria Pezzoli, le cui lettere rileggiamo in Vera gioia è vestita di dolore, pubblicate l’anno scorso da Adelphi.
È forte, Anna Maria, perché studia, approfondisce e protegge il talento profetico. Rimane povera economicamente, ma non una miserabile. Non è una precaria dell’esistenza. Il messaggio ci arriva con energia, con il permesso a rileggere i suoi scritti, anche minori, perdonandoci, ognuna per sé, l’imperfezione e la caducità. Nei tempi odiosi che ci attraversano, il brano inedito è una guida, una mappa di orientamento.
*Tutta la storia della vita delle donne è piena di silenzi, di grida disumane, a volte, ma più spesso di silenzio, il silenzio delle vittime e delle parole bugiarde, della forza che si esprime in parole altrettanto bugiarde sulla acquiescenza e soprattutto la necessità delle vittime. Ma non solo le donne, e le loro larve, hanno attraversato questo fiume eterno: i poveri di tutti i tempi, gli uomini senza valore e poi gli animali, cortei infiniti di poveri animali e di bambini senza valore; perché, poveri, sono stati compagni delle donne, del loro “silenzio” disperato. Il silenzio è infatti proprio di chi non ha valore o non gli è riconosciuto dalla Forza (per Forza intendo qualunque potere) ed è quindi in balia di questa Forza, una creatura disperata. Perché parlerebbe, se la sua voce è intesa solo come un suono confuso nel vento? Da chi aspetterebbe la grazia? E la protesta (penso al gemito degli animali) in che modo potrebbe essere intesa come protesta e richiesta di tregua e non come suono insensato della materia? Di ciò che permette in definitiva, di continuare stragi e mercificazioni delle creature?
Possiamo dire oggi che almeno la donna, almeno in parte, ha trovato la parola e la usa; ha incontrato il suo proprio silenzio e lo ha rotto come uno specchio stregato. Possiamo dirlo, ma fino a un certo punto. La cosa è vera, ma fino a quando si tratti di gruppi, di categorie emergenti dal cuore di società moderne, già tanto ricche e disumane da poter essere tolleranti senza rischio. In occidente, infatti, la donna ha l’uso della voce (dico l’uso pubblico) e la benedizione del potere, ma solo perché è già dalla parte del potere (in questo caso industriale, scientifico, solo marginalmente politico) e in tal caso si trova proprio dalla parte giusta: quella di chi intende mistificare e sottomettere il dolore degli “ultimi”.
Devo esprimermi con domande di colore radicale da una parte e dall’altra quasi religioso: che luogo occupano oggi la voce e il potere delle donne che hanno trovato o cercano (e troveranno) la loro importante collocazione nel quadro dei valori occidentali (valori industriali)? Che luogo occupano oggi tutti gli altri, i rimasti fuori? Che valore hanno i diritti degli ultimi (bambini, vecchi senza denaro, giovani senza destino)? E infine che luogo, che rilievo ha, nel loro nuovo potere (la parola) lo sterminato mondo animale? L’altra parte del cielo non è stata forse assunta alla dignità della “voce” solo perché ha consegnato questa voce alla perenne dittatura dell’uomo e questa voce, che ora essa usa, è quindi di nuovo vincolata ai vecchi patti del silenzio sul dolore delle vittime? Per accettare in pieno, come vorrei, l’affermazione che le donne, almeno occidentali, hanno trovato una voce e la usano davvero al femminile, secondo regole nuove, alte regole del vivere, le sole degne, dovrei essere sicura che questa pretesa parte del cielo non sia ancora semplicemente la parte del vecchio uomo.
Lo temo, perché le donne che emergono, in ogni paese dell’occidente, presentano programmi riguardanti unicamente il corpo della donna e il diritto al benessere e alla felicità del corpo, al suo trionfo direi. E questo non mi pare nuovo, tranne che nell’estensione del fenomeno, mi sembra di riconoscervi qualcosa che è sempre stato, e sempre è stato gradito all’uomo e che divide con l’antico una stessa tetra caratteristica: l’assenza di voce (dico di voce nuova, di voce umana) l’assenza di qualsiasi rivoluzionaria visione del mondo. Nella voce delle donne, almeno oggi, io vedo l’obbedienza di ieri alla loro natura, ai loro uomini, al loro privatissimo e gioioso potere. E continuo a domandarmi: su cosa vive, di che si alimenta questo potere? Vive come nel passato, con la differenza che ora gestisce apertamente il proprio essere e avere, ma nel passato, sul silenzio delle vittime: la natura e il mondo.
Crederò alla inviolabilità del corpo femminile, quando la donna avrà proclamato l’inviolabilità della natura, del mondo e si batterà per essa. Finora io non vedo che cose vecchie. Vecchio l’uso e l’abuso del corpo, il suo scadimento a merce, vecchie le bugie sull’amore, vecchia l’obbedienza ai costumi dell’uomo, vecchio il matrimonio (intollerabile, ma sempre considerato un dogma, il destino biologico della donna), vecchissimo l’aborto e la diffidenza per il controllo di sé (non sarà una nuova schiavitù?). Ma con una variante tenibile rispetto all’antico: il pubblico disprezzo del capitale genetico, di ciò che esso porta con sé dalla più profonda antichità. Il diritto di vita e di morte sul bambino si esercita come sempre a favore dei diritti del corpo e dei diritti dell’uomo su questo corpo, con la complicità della legge o della scienza.
Alimentarsi, vestirsi, sfruttare ogni occasione e possibilità per portare un piacere a sé stessi, vivendo sullo sfruttamento e l’uso efferato degli animali, il disconoscimento perenne del loro dolore, non sembra una colpa o un reato alla donna. Essa ha una voce, si dice; scrive libri, li pubblica, di lei si parla; pensa e ottiene delle leggi a suo servizio. La natura e la vita muoiono; e passano ai grandi mercati; solo la donna, la donna occidentale, resta splendida come una statua, intatta sui mercati della vita.
Siamo ancora in attesa, dunque, dell’altra parte del cielo. Quando questa parte avrà una voce, una sua filosofia, quando la donna si sveglierà e riconoscerà che solo il cielo vero, i fiumi, le foreste, il corpo dei bambini, tutti i gioielli della natura, sono veramente inviolabili, che uomo e donna non sono padroni della vita, ma figli e che occorre rispetto e compassione della natura, prima ancora che delle ideologie, se si vuole continuare a vivere sulla terra, a veder vivere la terra e se si vuole che questa non debba trascinare, nella sua caduta, anche il vincente, glorioso corpo umano; solo a questo punto si potrà dire che la donna ha rotto il silenzio. La parola, prima che suono emergente tra i suoni della natura, non può non essere che il grido della natura stessa, là dove la bontà, che è ragione, non è giunta, e la Forza posa il suo piede. Non può respirare se non a servizio di questa straziata natura. Non può scrivere sul suo sigillo segreto, quello che ha scritto un certo principe straniero sul suo stemma: “io servo!”.
Non dire: “mi servo”, se hai voce. Ma chiedi alla tua voce di servire. Saprai allora che la tua voce è nuova e se l’attende un’aurora… o la notte di sempre!