La violenza discriminante esercitata dalla società è sempre più prevaricante, pervasiva e subdola. Ne siamo contagiati anche senza esserne consapevoli. Serve un ripensamento di alcuni modelli e della loro comunicazione. Per questo la psicologia è uno strumento prezioso…
di Lizia Dagostino
Come psicologa avverto l’urgenza di partecipare, con l’impegno pedagogico, alla ricostruzione di una cultura generale dell’umano. È importante valutare assieme i processi di carattere finanziario, tecnologico, culturale, sociale e politico. Inizialmente, considero come un’emergenza la formazione sistematica alle relazioni sociali. Siamo connessi male a noi stessi e ricominciamo dall’impegno all’autocoscienza.
Le discriminazioni basate su orientamento sessuale, genere e identità di genere, su soldi e potere, su telegenicità sono sempre più sottili e radicate. L’ordine psicologico Compiaci favorisce gli atteggiamenti ipocriti, di falso assenso e abbassa l’aspettativa che ogni persona venga riconosciuta nelle sue scelte e nella diversità, per il solo fatto oggettivo di esistere e non per tolleranza.
Spesso, ci diciamo: accontentiamoci di un risultato minimo; poco è meglio di niente; essere gentili non costa nulla; non ce l’ho con lui/lei, ma con chi comanda davvero; in fondo, anche lui/lei ha qualcuno sulla testa … E, intanto, riduciamo le parole, abbassiamo lo sguardo, ce ne torniamo a casa pensando a un’altra possibile soluzione, talvolta, addirittura sentendoci incapaci e fuori da un mondo più avanti ed efficiente di noi.
La prevaricazione sistematica produce traumi collettivi e determina la riduzione, la cosificazione dell’altro in modo che non replichi e che smetta di esporre le sue ragioni. Questa fragilità a ribadire le proprie ragioni diviene ricattabilità e segna un processo comunicativo al ribasso. La repressione governativa diventa modus operandi dinanzi a tutti, anche nelle comunicazioni di ordinaria quotidianità.
Dinanzi all’azzeccagarbugli che ci spiega e rispiega, difeso dietro l’elenco di regole e procedure, scegliamo sempre più frequentemente il silenzio, l’obbedienza, la rinuncia, i passi indietro per il timore di doverci rimettere. Sopportiamo lo sguardo dell’operatore allo sportello, del dirigente, del collega che insistono a spiegarci come stanno le cose, come compilare i modelli, come ossequiare le leggi.
Siamo sottomessi a microscopiche scritte contrattuali, mail che finiscono in spam, ma, soprattutto, a referenti addottorati senza grazia che utilizzano tutti i giochi psicologici per farci sentire inadeguati, ignoranti, miseri. La tigna mostrata, senza suggerire una soluzione, tradisce la frustrazione rabbiosa di non essere i soli e i migliori sulla terra e, invece, di dover stare lì a discutere con i minimi. L’invito è a vigilare, a riconoscere dalle prime battute il gioco psicologico a È tutta colpa tua oppure quello a Psichiatria, o ancora T’ho beccato o Tribunale.
Sento sulla carne l’azione del micropotere che declassa, che compatisce per inettitudine noi, ormai, ai limiti della pazienza e della comprensione pietosa. Per sfinimento, ci iperadattiamo. Mi ritrovo compagna di strada di una umanità dignitosa ma disappartenente, di una specie creaturale oppositiva, nella sua imperfezione, al comune senso del potere e della presentabilità.
Reprimendo il dissenso e criminalizzando la protesta anche minima viene delegittimato il diritto a confliggere, a esistere. Patisco la difficoltà nel costruire una idea di libertà, un abbozzo anche lontano di democrazia e finisco per sentirmi io stessa troppo vecchia, troppo lenta, rispetto alla fùria del mondo.
La discriminazione che troppe persone non vedono, è richiamata in un articolo di Viola Di Grado, in The Guardian, letto sulla rivista Internazionale N.1577: “Come i bambini a lungo trattati male finiscono per abbassare la soglia di percezione del gesto violento, così le minoranze discriminate, inclusa la comunità lgbtq+, spesso non riconoscono l’abuso e anzi provano genuina gratitudine per quella che considerano un’accettazione parziale.”
La via della giustizia sociale prevede un cambiamento di mentalità perché ogni persona fa parte di una minoranza, in qualche variabile, sotto la lente di ingrandimento. L’aspetto discriminatorio è caratteristica basica nell’essere umano, spaventato dal diverso-da-sé, e orientato al pacifico e pericoloso doppio-di-sé. Il lavoro formativo serve a nutrire la coscienza antropologica, la coscienza ecologica, la coscienza civica, la coscienza dialogica.
Il senso è trasformare il potere del ruolo in potenza delle competenze; la concorrenza con l’altro in cum currere, procedere con l’altro; l’iniziativa personale in progettazione partecipata. È bene modificare l’incarico occasionale in incarico su specifiche competenze; il management tecnico in mens-agere, in azione emotiva e cognitiva assieme; il successo scontato in desiderio del succedere in divenire. Creare un’impresa non è solo fare business, provvedere unicamente al bilancio economico, perché riconosciamo l’essere umano come sapiens e demens, razionale e delirante; faber e ludens, lavoratore e giocatore; empiricus e imaginarius, empirico e immaginario; prosaicus e poeticus, prosaico e poetico.
Introiettare, sminuire o dare per scontata la dinamica del comando-controllo in una malata coazione a ripetere, è sintomo dell’inconsapevolezza rispetto all’autoritarismo incombente. Credo alle leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate.
Rileggere una riflessione di una delle mie maestre preferite conforta, sostiene e guida:
“Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato: deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo”.
(Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi, 1997)