di George Simenon
Recensione di Paolo Maragoni
“Aveva lasciato andare il giornale, che prima gli si era aperto sulle ginocchia e poi era scivolato lentamente fino al parquet lucido di cera. Non fosse stato per la sottile fessura che di tanto in tanto gli si disegnava fra le palpebre, si sarebbe detto che dormiva. Chissà se la moglie ci era cascata… Se ne stava a sferruzzare, nella sua poltrona bassa, dall’altro lato del camino. Sembrava sempre che non lo guardasse neanche, ma lui sapeva da tempo che in realtà nulla le sfuggiva, nemmeno il più impercettibile fremito di un muscolo.”
Premetto: amo George Simenon. Il suo stile minimalista, preciso, semplice e diretto, freddo e clinico, eppure capace di scavare in profondità nell’animo umano, esplorando le emozioni più complesse e oscure con grande empatia e comprensione.
Lo scrittore belga, inventore del celebre commissario Maigret, è maestro nel riportare nei suoi scritti gli spigoli della psiche umana, mostrandoli con pochi dettagli, senza indulgere in lunghe descrizioni.
Quasi tutti i suoi romanzi di narrativa non di genere si svolgono nell’ambiente famigliare, dove si celano, pronti a esplodere, i più atavici e violenti conflitti. Il libro da cui è tratto l’incipit di questa recensione si intitola Il gatto, scritto nel 1966 e pubblicato in Italia nel 1969 da Mondadori.
Il manoscritto narra la storia di Émile e di sua moglie, Marguerite, coniugati in tarda età e che ormai, da diversi anni, vivono sotto lo stesso tetto senza parlarsi. Comunicano solo tramite bigliettini o con occhiate cariche di livore, eppure nessuno dei due molla la presa, entrambi portano avanti una straziante lotta fatta di rancori e desideri malefici.
La quotidianità della coppia è una realtà soffocante in cui si percepisce ogni gesto, o sguardo, con acuta lentezza, e nella quale questi due anziani si spiano stando nella stessa stanza, eppur lontani, come rinchiusi in mondi distinti e incongiungibili.
Quante volte abbiamo guardato una coppia mangiare in silenzio, portata dopo portata, o intenta a trafficare con il telefonino senza rivolgersi la parola? Anche in casa nostra, magari. I muri di silenzio: la cosa peggiore che possa accadere a due persone che dicono di voler condividere la vita.
Ecco, Simenon riesce a rendere palpabile l’alienazione tra i due personaggi, descrivendo una convivenza che è diventata una guerra silenziosa fatta di piccoli gesti di vendetta e disprezzo reciproco. Il gatto, simbolo di un passato migliore e dell’affetto perduto, diventa un elemento centrale nel loro rapporto deteriorato, come lo smartphone ai giorni d’oggi.
Émile e Marguerite hanno smesso di comunicare verbalmente dopo la morte del gatto di Émile e del pappagallo di Marguerite. La loro relazione è un ritratto di solitudine, amarezza e rancore accumulato nel corso degli anni. L’incomunicabilità dei due personaggi non è solo verbale: è una frattura più profonda, riguarda la capacità di empatizzare e connettersi uno con l’altra. Vivono insieme come isole, ognuna circondata dal proprio mare di solitudine. Simenon, come suo solito, resta legato ai fatti e non ci offre grandi voli psicologici o filosofici sulla questione: ci presenta la quotidiana sequenza di immagini meccaniche, la vita divenuta un insieme di azioni prive di significato, incapaci di costruire connessioni. E i piccoli gesti di vendetta, il silenzio che riempie la casa, sono espressioni di questo vuoto, dell’abisso emotivo che separa i due compagni.
Lo stile di Simenon diventa quasi trasparente: non intralcia mai la narrazione, permettendo al lettore di immergersi completamente nella psicologia dei personaggi. La bravura dell’autore emerge in modo esemplare: la sua abilità nel trattare il tema complesso dell’incomunicabilità si coglie nella scrittura sobria e densa, nei dialoghi più banali, nella narrazione delle situazioni quotidiane della coppia, che lasciano trasparire un senso di angoscia esistenziale e di malinconia che monta con lo scorrere delle pagine.
Il silenzio tra Émile e Marguerite è più pesante di qualsiasi litigio, rappresenta ciò che non si sono mai detti, tutto il loro sospeso, marcito nel tempo. Il mutismo è divenuto l’unica modalità di comunicazione: un’arma usata per ferirsi, ma anche un rifugio in cui nascondere le sofferenze, una sorta di auto-protezione: parlare vorrebbe dire esporsi troppo, con il rischio di ferirsi in maniera definitiva.
L’odio in entrambi ha radici ben più profonde dell’evento che ha causato la rottura fra di loro, e che evito di svelarvi. Si sono incontrati portandosi dietro tutto il proprio bagaglio di delusioni, rancori e difese contro il mondo, e ora, insoddisfatti, delusi, si stanno massacrando a vicenda. Émile, uomo pratico, quasi rude, con la precedente moglie passava le giornate a bere, oziare, senza mai prendere niente sul serio. Marguerite, invece, proviene da una famiglia ricca, formale, silenziosa e immutabile come un dipinto. Nessuno dei due vede davvero l’altro, fissano solo il loro bisogno di non trovarsi soli, e in esso si uniscono, ma senza il desiderio di voler comprendere a fondo il mondo dell’altro, giusto o sbagliato che sia. La loro incomunicabilità ha origine agli albori della loro conoscenza, e come radici si dirama in un rapporto fasullo, giorno dopo giorno, senza che nessuno dei due si decida a mettere fine a quell’atroce e ridicola farsa.
Il gatto, nel titolo del romanzo, è una metafora potente. Per Émile, rappresenta l’unico essere con cui aveva una vera connessione emotiva, un canale di comunicazione che con sua moglie non ha mai avuto. La sua morte è il punto di rottura definitivo, la scintilla che trasforma il silenzio tra lui e Marguerite in una barriera impenetrabile. In questa storia, Simenon non offre via di fuga; non c’è redenzione o riconciliazione: l’incomunicabilità è un destino ineluttabile che i personaggi accettano con rassegnazione.
Anche se la storia è specifica, la sensazione di disconnessione che descrive l’autore è qualcosa che chiunque può comprendere: chi non ha mai sperimentato, almeno una volta, il peso di parole non dette, di emozioni che non trovano una via d’uscita?
“Ciascuno dei due si sentiva una vittima e considerava l’altro un mostro.”
Così, in meno di due righe, Simenon racchiude il conflitto interiore dei due protagonisti. Lo scrittore ci offre, con Il gatto, un ritratto intimo e devastante dell’incomunicabilità, senza gesti o drammi appariscenti, solo con la lenta erosione di un legame, tra l’altro mai stretto davvero. Con stile secco e preciso, carica il testo di un’incredibile potenza emotiva, suggerendo più che dicendo, e ci lascia con un senso di malinconia profonda, ma anche con la consapevolezza che il fallimento non è solo un problema dei suoi personaggi, ma un’esperienza che appartiene a tutti noi.
È macabro e affascinante vedere come il nostro nuovo modo di comunicare ci abbia chiusi in un egoismo non dissimile da quello di Marguerite ed Émile. Oggi, spesso, ci troviamo a comunicare come loro, lanciandoci bigliettini in uno spazio vitale senza luogo né forma, e dove come Narciso fissiamo un riflesso immaginario, dimenticando le persone che ci sono accanto.
Forse, mai, in passato, l’uomo è stato più solo di adesso.