di Edoardo Brunetti
Un ragazzo in cammino. E un lungo percorso che non è solo fisico ma anche interiore. Santiago è la destinazione di un pellegrinaggio in cui il la meta concide con il viaggio stesso. Ed è così che il viaggiatore scopre paesaggi dentro e fuori di sé, trovandosi faccia a faccia con i suoi demoni ed i suoi eroi. Incontra altri viaggiatori, ordinari e straordinari, ma soprattuttoi incontra sè stesso…
UN UOMO INSTANCABILE
In un borgo della Navarra (o forse era la Rioja?) di cui non voglio ricordarmi il nome, un milanese in pensione mi parlava di viaggi. Dei suoi viaggi. Dei suoi viaggi a piedi. Capii subito che, riguardo al nostro incontro nel mezzo del Cammino di Santiago, di casualità ve ne fosse poca.
Questo Forrest Gump meneghino, un bel giorno, dopo aver ottenuto uno dei diritti più bramati dall’uomo da quando vive in società – quello di ricevere uno stipendio senza dover più lavorare (era andato in pensione) –, decise di mettersi in marcia, e che da quel momento in poi, proprio come il personaggio di Tom Hanks, avrebbe fatto qualsiasi cosa camminando.
La Lapponia, l’Inghilterra, i Balcani e ora la Spagna: se c’era un cammino lui l’avrebbe percorso. Se la terra era calpestabile, lui, potete stare tranquilli, l’avrebbe calpestata.
A scanso di equivoci: la grafica della sua maglietta ritraeva la Via Francigena da Roma a Canterbury, che lui aveva completato, forse più volte, probabilmente facendo vari tratti avanzando sui palmi delle mani, sicuramente conscio di star percorrendo la strada illuminata della propria vita, racchiusa in quei cammini attraversati così convintamente, da farti pensare che una qualche divinità li abbia tracciati apposta per lui.
Anche per il nostro Ulisse lombardo, parlando di eroi greci, era però giunta l’ora di tornare a casa. Dopo settemila chilometri percorsi in due intensi anni e mezzo, la sua Penelope si era trasmutata in un pavimento della cucina e i suoi Proci, in mattonelle logorate e dispettose.
Quest’uomo, alla fine del Cammino di Santiago, sarebbe veramente tornato a Milano per aiutare il figlio nella ristrutturazione della cucina.
È come se Batman smettesse di combattere il crimine perché a Robin è venuta una carie.
Ma così era scritto nel suo copione, giustamente onorato e rispettato da quest’essere dotato dell’instancabilità di Dorando Pietri e del senso dell’avventura di Bruce Chatwin; lui aveva compreso la fortuna di conoscere e percorrere il cammino della propria vita.
Dopo alcune ore dalla nostra chiacchierata, mentre lo osservavo mangiare solo nella cucina comune dell’ostello una pasta decisamente insulsa, pensavo che quella sarebbe stata la cosa più simile che avrei mai visto a un eroe greco.
‘O GRANDE LEBOWSKI
Quello non fu ovviamente l’unico incontro ravvicinato del terzo tipo della mia esperienza: il più degno di nota, tra gli altri, riguardava questo ragazzo napoletano, stempiato ma con lunghi dread che gli bussavano alla schiena ad ogni passo, con un bastone trovato nel bosco e decorato con piume come un pellerossa, alla faccia di tutti quei pellegrini diventati sponsor ambulanti della Decathlon.
Era un ragazzo senza tempo né destinazione: non sapeva se si sarebbe fermato a Santiago o sarebbe arrivato a Finisterre, località della Galizia poco più in là, sull’oceano, come si potrebbe intuire dal nome; o addirittura chissà a Porto, perché gli piace il Portogallo e si trova a trecento chilometri da Finisterre, solamente una decina di giorni e di tartassanti vesciche in più. Perché no?, in fondo. Di tempo ne aveva, di soldi no; ma ciò non sembrava preoccuparlo. Sembrava che un concetto come il capitalismo non avesse mai trovato il coraggio di bussare a casa sua. O chissà, alla sua capanna.
Sorrideva e continuava a sorseggiare un caffè in quella semi-deserta piazza di Puente de la Reina; era una presenza gradevole nonostante l’odore, che sicuro non mi sorprese, visti anche gli indumenti larghi e trasandati che sfoggiava. Mi si perdoni qualsiasi pregiudizio.
Gli dissi che stavo studiando a Barcellona e che sarei ritornato in Italia in pochi giorni.
“Barceloca” mi rispose, mettendosi poi a raccontarmi di quando fosse andato a vivere là con soli venti euro in tasca. Forse il vero loco era lui. Però voleva andare a Barcellona e una cosa così accessoria e facoltativa come il denaro non l’avrebbe certo fermato a lui, lui che pareva il destinatario perfetto per l’insegnamento del Drugo, di prendere la vita come viene.
I problemi sono bambini capricciosi, vogliono le tue energie e attenzioni, e chissà che ignorandoli non si stanchino di essere importuni e preferiscano piuttosto mettersi a letto da soli, lasciandoci vivere, respirare.
Perciò al Drugo napoletano – queste le perifrasi che la mia pessima memoria e il mio incalzante orgoglio mi condannano a fare pur di non ammettere che non ricordo il nome di una singola persona che ho incontrato durante il Cammino – , il trovarsi senza lavoro e il non avere un posto dove dormire e il chiedere a compagni-di-bevute-per-una-notte (evidentemente non offerte da lui) se potessero ospitarlo nel loro salotto, beh tutto questo non gli avrebbe certamente tolto quel sorriso tanto genuino quanto sorprendentemente pulito.
Respingeva qualsiasi tormento come una parete di squash.
Si sarebbe persino ubriacato sulla spiaggia della Barceloneta fino ad addormentarsi (collassare) dolcemente (mica tanto, immagino) sulla sabbia, con il telefono e il portafogli, secondo lui, al sicuro dentro le sue tasche. Come se le tasche di quei pantaloni di seconda mano fossero state forgiate da divinità norrene o rappresentassero una no-pickpocketing-zone, la cui entrata da parte di un borseggiatore avrebbe rappresentato la perdizione eterna.
Si sarebbe poi (ovviamente) svegliato con tagli sui pantaloni e senza più l’ombra dei suoi (pochi) beni. Il giorno del suo compleanno.
“Mi stavano facendo tutti gli auguri ma non potevo rispondere a nessuno”, mi diceva ridendo, sputandomi spudoratamente in faccia quella che all’epoca era la sua unica preoccupazione: rispondere ai messaggi di auguri dei suoi cari. Quest’uomo aveva vinto tutto.
Ora, non vi dirò stronzate del tipo: è stato l’incontro che ha cambiato la mia vita, da quel momento ho abbandonato gli studi, ho venduto tutte le azioni che avevo in borsa, ho mandato affanculo i miei genitori rappresentanti di questo sistema edonistico piccolo borghese tendente all’autodistruzione e ho ritrovato l’essenza della vita in una tribù dell’Amazzonia dove gli uni si prendono cura degli altri ed è vietato pulirsi il culo perché bisogna accettare ogni singolo frutto del proprio corpo come un dono di carità e fertilità.
No, non ho avuto la mia epifania da Into the wild.
Ma credo che qualcuno o qualcosa stia continuando a disseminare persone come il Drugo napoletano – sotto forme sicuramente meno New Age – lungo il mio percorso, sperando che impari a prendere i problemi e gli obblighi come parti inevitabili della vita, di cui spesso e volentieri la soluzione è più alla portata di quanto sembri; e la distanza da questa non va misurata in preoccupazioni al metro quadro.
Sia a Lisbona che a Barcellona, ho incontrato dei piccoli Lebowski che stanno lasciando impronte importanti sul mio carattere; mi appaiono sempre più spesso nei momenti in cui mi sento sopraffatto, e mi dicono placidamente: prendila con tranquillità; io ho fatto così e sono ancora qua. Una valigia si può fare anche la mattina stessa del viaggio.
Le seghe mentali lasciale ai film di Lynch, e tienile fuori da quelli dei Coen. Perché “[…] è così che la dannata commedia umana procede e si perpetua. Di generazione in generazione, la carovana che va ad ovest, attraverso il deserto, nel tempo fino a…”
Ma guarda un po’, ho ricominciato a vaneggiare.
CAMMINARE SULLA TESTA
Glielo devo riconoscere: questi due incontri sono stati forse gli unici, durante sette giorni di cammino, che mi abbiano riportato per terra, su quel suolo sterrato della Spagna rurale.
Mi spiego meglio.
Marx diceva che con le sue teorie comuniste era riuscito a far camminare la dialettica di Hegel sui piedi invece che sulla testa; io ho ventitré anni e di politica e ideologie ne ho già pieni i coglioni – tanto non funzionano e servono solo a spillare soldi ai creduloni –, però l’immagine di camminare sulla testa non mi è mai uscita dalla mente dai tempi del liceo.
Mi viene molto difficile, quando sono solo, concentrarmi sul mondo che mi circonda, così illeggibile e noioso.
È sempre il mondo interiore, quello dentro di me, a prendere il sopravvento e a caricare di significato anche la più noiosa delle passeggiate. Sì perché una passeggiata è fisicamente solo una passeggiata, a meno che non sia tu stesso a riempirla di significato. In un film o un romanzo, una passeggiata porta sempre a qualcosa: una rivelazione, un evento inaspettato. Nel nostro mondo, una passeggiata probabilmente ti porterà a casa, o tutt’al più al parco vicino a casa.
Bene, a me sembra una palla infinita. La mia irrequietezza è la mia voglia di significato, e il significato si trova sempre nelle storie.
Voglio vivere e leggere la mia vita come una storia. Come se fossi perennemente in un film. Biografico, noir, western, horror, commedia: non fa differenza alcuna. Ma voglio sentire emozioni, quelle che la vita, secondo me, riesce a darti (quasi) solo con la giusta compagnia. Compagnia per ovvi motivi assente durante questo mio pellegrinaggio.
Ed ecco che quando entro in un bar nei pressi di Pamplona alle sei di mattina, non penso a me stesso come a un cliente, un potenziale compratore di croissant; ma come quel ragazzo ventitreenne che vive da un po’ di tempo ormai fuori dal suo paese natale e che sta per chiudere la sua esperienza a Barcellona, prima di tornare in Italia per l’estate, con questo cammino. Viaggiando solo. Esattamente un anno dopo il suo primo viaggio da solo e la sua prima esperienza all’estero. Che lo segnò per sempre. Character development. E magari questo ragazzo ventitreenne espatriato vuole un croissant in questo bar, come un cliente qualsiasi. È solo così che si riempie di significato anche il solo fatto di mangiare un croissant, che si sfugge dalla noia del mero gesto nutritivo di per sè.
Ed ecco che dopo svariate ore a camminare nelle campagne della Navarra, con gli stessi due pellegrini a precedermi per centinaia di metri e a far parte costantemente di questo panorama mobile, quasi stessero fuggendo da me, mi sento nel deserto dell’Arizona nel XIX secolo con Tex, Kit e Tiger Jack-il migliore nello scovare tracce- alla ricerca di qualche bandito portavoce di tutte le ingiustizie del mondo.
Ed ecco che una costruzione rudimentale di rami e pietre nel bosco mi materializza tra i protagonisti di The Blair Witch Project e un passaggio a livello mi ricorda che sto andando con i ragazzi di Stand By Me a cercare un cadavere per sfuggire alla noia.
Forse sono solo i deliri di un ragazzo della Generazione Z un po’ troppo fissato con le storie – siano esse in pellicola, a disegni o a parole – ma vi assicuro che lo spettro di emozioni provate si amplia incredibilmente.
Ancora più spesso si finisce per rifugiarsi nei ricordi felici. O in rielaborazioni o conseguenze ideali di questi ultimi. Ma di ciò non parlerò.
Se accompagnati poi dalla musica, l’arte viaggiatrice per eccellenza, il mondo fisico, fatto di quark e insensate tasse da pagare, si dissolve inevitabilmente.
Una passeggiata, un cammino, diventa una sfida contro sé stessi e gli affetti del passato, una fuga o un inseguimento, una ricerca prossima alla scoperta.
Per questo non arrabbiatevi, amici, se non mi ricordo di che colore fosse la vostra felpa o la marca della vostra macchina perché tutto ciò non aveva alcuna funzione narrativa nel mio mondo; in quel momento stavo camminando sulla testa ed ero probabilmente alla ricerca di un qualche tesoro. E voi, senza saperlo, mi stavate accompagnando nella mia avventura.
ROUTINE
È stato soddisfacente abituarsi a quei ritmi: sveglia alle sei (dopo notti a volte insonni per colpa di inglesi con il motore di un boeing 747 al posto dell’apparato respiratorio), colazione alle sei e trenta, camminata dalle sette all’una/le due, e il resto del pomeriggio a osservare pacificamente quelle piccole realtà ogni giorno uguali eppure ogni giorno uniche che sono i pueblos spagnoli.
Essere un perenne viandante con una famiglia mobile, fatta di conoscenze fugaci, che potresti non rivedere mai più oppure la sera successiva nello stesso ostello (malauguratamente anche l’inglese Boeing). Camminare per ore facendo del viaggio la destinazione stessa. Ogni passo era già di per sé il motivo, la ragione per cui stessi facendo quello. Ma anche ogni collina, ogni fiumiciattolo, ogni birra, ogni sguardo incuriosito degli abitanti, ogni buen camino, igualmente. Ogni conchiglia a indicare la via.
SENSO DELL’ORIENTAMENTO
Di senso dell’orientamento non ne ho mai avuto, tanto nelle mappe, quanto nella vita.
(Eccoci qua, sono riuscito a iniziare un capitolo con una frase esistenzialista a effetto, trovata che tanto mi piace).
La verità è che non lo so se ho avuto questo fantomatico senso dell’orientamento nel mio percorso, quello con la P maiuscola. So però che ogni volta che vedevo una di quelle conchiglie gialle su sfondo blu a indicarmi la via del Cammino di Santiago, mi sentivo inevitabilmente bene. Significava che stavo riuscendo a districarmi in labirinti completamente nuovi per me. Che stavo camminando la strada giusta.
Non mi dispiacerebbe una vita così.
Una vita in cui il successivo passo da compiere, la successiva via da imboccare, sono chiaramente segnati sui muri che ti attorniano. Una vita in cui sai di star percorrendo la strada che è stata confezionata per te con tanta cura. Una vita in cui non passi il tempo a chiederti cosa sarebbe successo se avessi percorso una qualsiasi di quelle altre strade, all’apparenza tutte maledettamente simili tra di loro, ma dalle conclusioni così diverse.
Oppure chissà che alla fine il nostro destino non sia già segnato, che non importa quale strada prendiamo, essa finirà sempre per portarci dove veramente dobbiamo andare.
Che la segnaletica del Cammino di Santiago alla fine non sia che un’illusione, che abbia mero scopo decorativo e rassicurante. Che stia solo cercando di abituarci all’idea di percorrere la strada giusta, aspettando come un genitore che il figlio continui a pedalare senza accorgersi che non vi è più nessuna mano a spingere il sellino.
Che qualsiasi viuzza di quegli arcaici pueblos non sia quella giusta per noi. Che qualsiasi strada, alla fine, non ci porti a Santiago.
La nostra personale Santiago.
Chissà. Speriamo.