Stanze è un progetto che racconta la stanza come luogo fisico e metaforico. La stanza infatti è uno spazio intimo in cui la creatività prende forma lasciando fiorire quei “momenti di essere” tanto cari a Virginia Woolf. La stanza della prima fotografia è una delle stanze in cui lavoro, progetto e studio.
Ma la stanza può essere ovunque, perché la nostra casa viaggia con noi.
di Francesca Pacini
Ne ho diverse, io, di stanze.
Una stanza importante, per me, è il deserto del Sahara, in cui scrivo al lume di candela nei viaggi alla scoperta dell’anima.
Lì il silenzio copre e svuota le parole, le restituisce ad altri significati.
Ed è proprio nel deserto che il vento soffia ovunque, guidato dallo spirito in cerca dell’anima.
Non ci sono religioni, qui, né gabbie, né frontiere.
C’è solo una distesa immensa di sabbia che sconfina nel cielo, guidata dal vento che sposta dune e coscienze.
Il registro, qui, è il silenzio. Si ascoltano tuttavia i passi invisibili di un antico camminare. Sono le tracce dei pellegrini del tempo.
Nel deserto sei solo con la tua ombra. Impossibile evitarti. Impossibile indossare maschere. Il deserto ti sveste, ti toglie tutto per restituirti all’anima.
Per questo Cristo l’ha attraversato. E per questo motivo i Padri del deserto pregavano qui.
Qui, in fondo, tutto è preghiera. La clessidra scompare, la sabbia non scivola più e il tempo diventa immemore.
Il deserto è meditazione, la sua cifra spirituale non può avere altre destinazioni. Accoglie il poeta, il cercatore. Ne custodisce le anime ritrovate. Lui allarga le sue braccia di vento per avvolgere il laico, il cristiano, il musulmano.
Si modifica in continuazione (“Ho spostato un granello di sabbia e ho modificato il Sahara”, scriveva Borges), ogni duna tocca il cielo azzurro per poi tornare accanto alle altre mentre i dromedari (mehara, le navi del deserto, come vengono chiamati dagli arabi) solcano l’oceano di sabbia con la lentezza di chi sa che la meta è il viaggio stesso.
Non è un’esperienza estetica, il deserto. Detesta i campi tendati di lusso della modernità, preferisce rifugiarsi all’ombra di qualche pianta in attesa che la notte svegli le stelle e riveli i segreti del cielo. Sfugge ai turisti per mostrarsi solo ai viaggiatori, a quelli che cercano ancora, e ancora, accontentandosi di una tenda e un cammelliere che scorta il buio in attesa dell’alba.
Qui c’è ancora uno spazio vuoto che si sottrae all’opulenza della globalizzazione, al trionfo della materia. Qui gli spiriti della sabbia, e del vento, cantano la canzone segreta dell’anima.
Ti invita a conoscere l’alfabeto dell’anima, la parola senza parole, l’impronunciabile.
E ti suggerisce la legge del mutamento, qui, dove tutto cambia come cambia il vento. L’impermanenza indica la via della trascendenza che si apre nella porta del cuore.
Quanto cuore, nel deserto. Un cuore grande, immenso. Un cuore invisibile.
Perché se “l’essenziale è invisibile agli occhi”, come sa bene Saint-Exupéry che in un deserto si perse, basta la vista del cuore. Non a caso Bab’Aziz, il vecchio derviscio che con la nipotina vaga nel deserto alla ricerca della riunione dei sufi nel bellissimo film di Nacer Khemir, è cieco. A lui basta la vista del cuore, quella che oggi abbiamo smarrito.
E per trovarla serve quel “battesimo della solitudine” che può avvenire solo se si ha il coraggio di allontanarsi da tutto, e da tutti, perfino dal cammelliere, per cercarsi oltre le dune. Ed ecco che, in questa solitudine benedetta, il respiro si allunga e i pensieri si accorciano, mentre il vuoto si riempie e si fa maestro, insegna.
Così scopri che sei tu stesso la tua risorsa e il tuo ostacolo, il tuo alleato e il tuo assassino, sei tutti i volti di quei falsi te stesso che ti camminano davanti e accanto mentre ti muovi nella società, e sei il volto sconosciuto del tuo vero sé, quello che ti attende da sempre.
Nel deserto sei straniero all’immagine che avevi di te, e proprio per questo ti trovi.
Sei nudo, nudo come la sabbia svestita di mari e di boschi e di prati. In fondo, la sabbia richiama l’argilla del primo Adamo, dell’uomo di terra che cade nel tempo precipitando dall’eternità del cielo.
C’è una linea magica, nel deserto, che separa le dune dal cielo e apre le porte dell’invisibile. I tramonti e le albe ne indicano i passaggi fra i mondi.
Il deserto non è fatto per le menti, ma per i cuori. Sì, fa paura. Atterrisce. Temi di cadere per sempre in quell’ignoto che divora certezze. Ma devi farti forza, è quella la via per incontrarti davvero.
L’attesa, la sospensione del tempo. “Le stelle sono il mio televisore”, mi ha raccontato una sera Ahmed. Ha sedici anni e fa il cammelliere. L’ho invidiato. Ho pensato che è in quella semplicità il sogno perduto dell’Occidente.
Di notte, nelle tende, non mi sento sola. Mi fanno compagnia gli spiriti del deserto. Li sento, li accolgo, li onoro.
Non importa di quale dio pensi di essere figlio, qui c’è spazio per tutti. Il vento è un flauto, la musica è quella degli atomi che danzano, come dervisci. I suoi drappi ornano la pelle, la abitano, la accarezzano.
La sabbia di giorno brilla di sole, mentre di notte rinfresca la stanchezza offrendole riposo.
Poi, accade all’improvviso. Il silenzio predispone, come la solitudine. Non puoi trovare la tua anima in compagnia di qualcuno. Anzi, non puoi farti trovare. Perché tu sei solo polvere, è il tuo piccolo, grande ego a farti pensare smisurato, onnipotente, infinito. Ma poi arriva lei e straccia via la tua presunzione.
L’appuntamento con l’anima è un fatto intimo, un incontro pattuito prima che il tempo fosse. Puoi solo trovare il sigillo e usare la chiave.
Ecco perché i campi di lusso che radunano i turisti in cerca del selfie al tramonto non sapranno mai nulla di deserti, e di anime. La comodità plastifica l’esperienza del deserto, e la rende vana.
Nel deserto si seppelliscono i morti, si benedicono i fantasmi, si staccano pezzi d’identità che non servono più, si purgano i desideri per ascoltare ciò che vogliamo davvero.
Nel deserto ho scritto i nomi di mio padre, di mio zio, dei miei amatissimi gatti. È stato il momento in cui li ho lasciati andare veramente, in cui ho sentito più forte l’assenza. La fragile calligrafia che ha sfidato la vastità del Sahara sarebbe stata presto portata via dal vento, così come loro sono stati portati altrove, in luoghi che non so immaginare.
Eppure per un momento nell’eternità sono stati, sono esistiti, così come è esistito il loro nome sulla sabbia.
Il tempo del deserto è un tempo circolare, è un tempo senza direzioni precise, esattamente come il tempo degli dèi. Per questo ci avvicina all’enigma della vita, e della morte.
Nel deserto ho pianto. Ho riso. Ho camminato da sola lasciando briciole di Pollicino per non perdermi nell’immenso.
Nel deserto mi sono affacciata in un altrove finalmente possibile, nella vertigine di un enigma che senza fretta dilata i sensi e li diluisce fino all’ultimo avamposto della vita così come la pensiamo, per fare spazio al “non pensiero”, all’attimo che nasce e muore in sé stesso, nel presente libero da ogni passato e ogni futuro.
E tutto è. Non saprei dirlo in modo diverso. Tutto è.
È il cerchio magico nel cui centro trovi te stesso.
È viaggio e ritorno, infinito e stupore.
È il battesimo del silenzio, come scrive Paul Bowles.
E in quel silenzio nasce il vero te stesso, per la prima volta.
E tornerai sempre a cercarlo, quel posto intenso, vuoto ma pieno, in cui l’anima finalmente respira.
Il deserto è la mia stanza più bella, quella che vorrei abitare. Sempre. Per sempre.