Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

L’odore del sangue, Goffredo Parise,  Rizzoli

Recensione

di Paolo Maragoni

Sono attratto dalle storie di vita, quelle semplici seppur strane, poeticamente ironiche, provinciali, profonde nella loro quotidianità. Mi tengono incollato alla lettura come i soggetti a una foto. Il motivo è dovuto alla ricerca, in esse, di una parte di me.

Per questo motivo, il libro che vi presento è “L’odore del sangue” di Goffredo Parise, un giornalista del mondo, dunque realista nelle sue opere letterarie. Questo romanzo scritto poco prima di morire, venne pubblicato postumo, nel 1997, senza editing, limpido, puro e violento come la vita.

Nella Roma di fine anni ’70, Filippo e Silvia portano avanti il loro matrimonio fatto di stanchi sentimenti e platonica sensualità. Filippo è uno psicanalista ultra cinquantenne che, per sentirsi vivo, ha una relazione con una ragazza di 25 anni. Un giorno scopre il tradimento di Silvia con un ragazzo violento, di orientamento fascista, e di colpo il loro matrimonio subisce una svolta inaspettata. Filippo, ossessionato da una gelosia curiosa, interroga la moglie per conoscere i dettagli intimi della relazione, proiettando se stesso e le sue fantasie erotiche nella storia. Tale comportamento riaccende gli incontri sessuali tra marito e moglie, saturandoli di emozioni travolgenti, morbose, e autodistruttive.

L’autore, malato da tempo, e privo della propria indipendenza di movimento, scrive questo libro e lo chiude nel cassetto, avvolto e sigillato in una custodia con la dicitura: “Non deve essere pubblicato mai, ma distrutto.”

Malgrado la mancanza di rilettura, lo stile è chiaro, la forma perfetta, tranne qualche refuso.

Parise è sempre stato un tipo giocoso, burlone, viveva la notte, ma le sessanta sigarette quotidiane lo portarono ad ammalarsi presto. In questa opera si nota tutta la frustrazione, la paura, l’ossessione per il suo fisico che non pompa più come da giovane (appunto, l’odore del sangue).

Si tratta di un’opera particolare, pregna di desideri violenti, di amore incompiuto, colpe assegnate, di istinti irrisolti e felicità flebili. È una storia di sesso, nel senso più animalesco del termine. Non a caso, nel secondo volume dei “Sillabari”, (1982) edito da Mondadori, la voce Sesso è l’ultima a essere scritta, a testimonianza di quanta importanza avesse questo aspetto nella vita di Parise.

Scrive l’autore: “Nella vita gli uomini fanno programmi perché sanno che, una volta scomparso l’autore, essi posso essere continuati da altri. In poesia è impossibile, non ci sono eredi. […] preso dalla mano della poesia, giurai di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Poesie in prosa. Ma alla lettera S, […] la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi […].(1982), “Sillabario n.2”, edito da Mondadori, “Sillabari” (2004), edito da Adelphi.

Anche Freud, in questo caso, avrebbe trovato realistico un legame tra il blocco poetico e quello fisico. Parise, con “L’odore del sangue”, ha scritto un romanzo maledetto, e lo sapeva. Considerato un misogino in fuga dalla materia femminile, dopo aver scritto “Assoluto” (1963) in cui la richiesta di amore esclusivo della donna richiede l’abbandono del ragionare sui sentimenti da parte dell’uomo, anche “L’odore del sangue” pare rafforzare questa tesi, considerando la fuga di Filippo da Silvia, dal suo amore.

Ammetto di non essere persuaso dalla teoria di misoginia. Non conosciamo il reale rapporto di Parise con sua mamma, quanto sia stato amato da questa ragazza madre, cosa egli abbia saputo del vero padre, ma sappiamo del forte legame con il patrigno, Osvaldo, che lo riconobbe come figlio, dandogli il proprio cognome, avviandolo al mestiere di giornalista, e scrittore poeta. È ben risaputo del carattere ironico, burlesco, divertente di Parise, la sua predominante parte femminile di artista che lo ha portato a scrivere pagine di selvaggia realtà, di violenza, odio, amore, gentilezza, e fuga.

Ritengo il percorso bibliografico dell’autore vicino a quello dei più famosi scrittori statunitensi, legati alla realtà, ai luoghi, ai personaggi incontrati, ai loro mostri. “L’odore del sangue” è la parabola finale di una vita incompiuta, uno scavo profondo in un’anima castrata troppo presto, un desiderio di essere desiderato, inseguito, una vena recisa da cui goccia sangue che si sparge intorno col suo odore dolce e riluttante, come quello versato da Pasolini e da Francesca Alinovi, e come il suo che non gli teneva più dritto il “cazzo”.

E di chi è la colpa?

Dei giovani? Dei fascisti? Del telefono, gretto mitigatore di assenze?

O di sua madre? O della ricerca di razionalizzare sentimenti irrazionali come l’amore, come la morte? Missione, evidentemente, fallita dall’analista Filippo (Parise) ben prima di averla iniziata. O della malattia, degenerante, invalidante, dispotica?

Nel libro, Parise, scrive osservando la sua mente come un veggente guarda la palla di vetro: ci vede quello che lui solo conosce e, poi (forse) mente confessando la verità.