Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Ritorno a Istanbul

 

La Città delle Città è un crogiuolo di culture, popoli, religioni. Bizanzio, Costantinopoli, e poi l’Islam. La Istanbul laica di Atatϋrk sembra cedere il passo alla visione di Erdogan, che riesce perfino a trasformare di nuovo  in moschea Santa Sofia. Eppure c’è un vento ribelle che soffia ovunque, qui. E che, dopo anni, si mostra di nuovo, invincibile, orgoglioso, ribelle.

di Francesca Pacini

Sono di nuovo qui, a Istanbul. Sono tornata di nuovo, dopo anni di lontananza, persa altrove, in altre storie, altri racconti, a volte belli, a volte tremendi.

È sempre un rischio tornare dove siamo stati felici. È una scommessa, perché potremmo vivere la delusione del tempo che altera, corrompe i ricordi e sfianca il presente. Oppure potremmo rimanere incastrati nel passato, idealizzandolo e obbligando il presente a recuperarne a tutti i costi  la memoria.

È un po’ come quando incontriamo un vecchio amore, una fiamma antica che può vederci ridicoli, nel tentativo goffo di un recupero di sembianze e gesti trascorsi, non più attuali e attuabili, o magari delusi dal contare i danni del tempo che ha appoggiato la sua polvere opaca su ciò che una volta era brillante, sorridente, denso di vita,

E invece, invece ci sono amori non terminano mai. Per quanto tu possa allontanarli, scansarli, cercare nuove esperienze, tornano con prepotenza e ti rubano l’anima e il fiato, esattamente come facevano un tempo.

Proseguono paralleli, silenziosi, indisturbati accanto alla tua vita finché, un giorno, un incrocio del destino te li mette davanti di nuovo, e ti riportano indietro e allo stesso tempo in avanti, sbattendoti nei frammenti dei ricordi e nel gusto speziato di un ritrovamento che non è archeologia ma diventa uno stato della mente, un felice, perenne stato della mente che si sottrae alle vertigini del tempo ricordandoti del “te” di ieri ma disegnando anche il “ te” di adesso che di quello “ieri” è testimone, messaggero, estensione.

Ed ecco che Istanbul mi racconta di lei e di me, con la stessa forza di allora, la stessa meraviglia, lo stesso incrocio di venti che mi hanno accarezzata, accolta, amata. Il vento di Istanbul, quel vento unico, particolare, torna  a soffiarmi addosso i suoi racconti segreti.

Nel suo pulsare di vita ritrovo i battiti del mio cuore, nei vicoli sperduti con i panni appesi ritrovo le orme di un cammino e misuro i passi compiuti, e quelli ancora da fare, nelle acque del Corno d’Oro ho visto scorrere il volto di mio padre insieme ai giorni della sua irrimediabile assenza, nel tramonto ho ammirato le nuvole mentre il fuoco del cielo disegnava la magica sagoma di un gatto, e ho pensato che lo spirito di Anakin e Leila aveva preso quella forma per salutarmi, per brillare negli occhi di ogni gatto turco incontrato e fotografato (non finirò mai di ringraziare il popolo turco per l’amore smisurato che mostra verso gli abitanti felini di Istanbul, una relazione magica che segna ogni strada e ogni negozio), nella folla cosmopolita di Taksim mi sono sentita di nuovo a casa, finalmente a casa in quel luogo di tutti e di nessuno, che con sé porta ogni terra e ne canta il nome,  nel traghetto che navigava fra Europa e Asia i gabbiani sono volati su tutte le Francesche che sono, quelle visibili e quelle nascoste perfino a me stessa, portandomi oltre la sagoma dei minareti disegnati dal crepuscolo che scansa il sole per annunciare la luna.

Ed è il crepuscolo, oggi come allora, il mio momento preferito a Istanbul. Quando il giorno non è più giorno, e la notte non è più notte, le luci della città inseguono i sogni fra le barche che attraccano e quelle che partono verso l’ultima destinazione, fra i pescatori che a Eminönü sul ponte tirano su l’ultimo pesce del giorno mentre sotto, nello stesso ponte, altri pesci si offrono ai piatti di turisti che cenano mentre il Bosforo cerca le stelle per raccontare altre storie, e la torre di Galata raduna nei vicoli che la abbracciano e la circondano le leggende di francesi, ebrei e di viaggiatori ebbri d’amore per questa città che è un enigma perenne, felicemente, per sempre, irrisolto.

A Istanbul ho contato le assenze, e ho seppellito tutte le mie morti, senza nostalgia, perché qui rinasco ancora, e ancora, come un’onda increspata nel Bosforo.

Istanbul, sempre uguale e diversa. Istanbul randagia, come i suoi gatti. Istanbul circolare, come la volta dei suoi vecchi hamàm.

È la mia madeleine, l’hamàm. È il luogo fuori dal tempo, dallo spazio, dalla storia.

Nell’hamàm di Galata ho ricevuto da Istanbul uno dei suoi doni più belli. Ho avuto il privilegio di trascorrere più di un’ora senza nessuno. Nessun turista. Avevo chiesto di stare sulla pietra bollente, così, semplicemente, senza scrub e senza quelle turche meravigliose che ti fanno lo scrub e ti massaggiano con mani robuste, a volte quasi violente per la forza con cui si spingono sulla carne e sulle ossa. Nessun servizio richiesto, solo la libertà di vagare con la mente sulla volta di pietra da cui cadono sottilissime gocce in cui mi abbandono, e mi perdo.

Momenti di estasi, “momenti di essere”, come scriverebbe Virginia Woolf.

Ho avuto quasi paura di quelle sensazioni così profonde da temere di precipitare in un altrove senza ritorno.

Il silenzio è in realtà voce, racconto. È stato quasi doloroso abbandonare l’hamàm per tornare nel tempo degli uomini, fra le voci chiassose di Istiklal e i taxi con cui devi barattare il prezzo della tua corsa.

Avevo quasi paura di tornare a Istanbul dopo il Covid perché l’umanità, questi anni, è peggiorata, le persone sono state costrette a un bivio in cui hanno dovuto fare una scelta, spesso inconsapevole: tirare fuori il meglio o il peggio di sé. E molti, purtroppo, hanno tirato fuori il peggio. Questa umanità mi fa sempre più orrore, paura. Incrocio occhi privi della luce bella dell’anima, cattiverie dispensate con generosa abbondanza, adesioni a narrazioni sociali prive di spessore e fondamento. E mi sento sempre più sola, estranea, aliena. Mi spaventava un po’, l’idea di una Istanbul, con i suoi quindici milioni di abitanti, trasformata anch’essa dal trauma della pandemia.

Invece, con mia sorpresa, la sua energia è quella di sempre. Vibra alta malgrado il traffico, le case arrampicate ovunque, le migliaia di persone che attraversano la città con le loro storie.

Non ho sentito la stessa greve pesantezza che avverto nel mio paese, stracciato da anni di divisioni sociali, ostilità, comunicazioni terroristiche e imposizioni.

Qui il Covid è passato in maniera meno violenta, oppressiva. Sono altre le ombre di questa terra. Meno nevrosi, meno ipocondrie e “sterlizzazioni” di mani e di pensieri. Qui a Istanbul non è accaduto. Sarà perché il suo vento e il suo mare lavano via tutto, ma il “corpo a corpo” con le persone, nei miei vagabondaggi, non mi è pesato.

Non ho avuto bisogno di solitudine, qui, e di silenzi (mi è bastato lo spazio magico degli hamàm), né di rifugiarmi nella natura come mi accade nel mio paese.

Qui ho avuto sete di umanità, di nuovo e finalmente. Ho inseguito sguardi, indovinato vite, sbirciato frammenti di esistenza.

Non ho sofferto lo spazio urbano che invece mi ha dato forza, offerto vigore.

Fra i corpi in movimento mi sono sentita felice, e libera.

E ho pensato che il segreto di Istanbul che la sottrae all’oppressione metropolitana che collega invece  molte città sta nella forza del suo mare selvatico, nel suo esistere in bilico fra Oriente e Occidente, nel suo essere stratificazione di genti e culture.

Ne sono certa, è proprio dal mare che rinasce ogni giorno, come il sole.

E mi sono resa conto di quanto mi sia mancata, Istanbul. Insieme al deserto del Sahara è la mia terra d’anima. Qui, sono certa, ho vissuto innumerevoli vite che torno a cercare. Qui io sono stata, ho vissuto, ho amato.

Queste vite scorrono ancora al mio fianco, nascoste dal velo del tempo.

Che cosa hanno in comune, mi sono domandata, questa megalopoli e il deserto, apparentemente così lontani fra loro? E l’ho trovata, la risposta. La libertà.

Sia Istanbul che il Sahara per me sono libertà. Sfuggono entrambi alle definizioni, ed entrambi allargano i miei spazi interiori, li estendono quasi fino ai confini del mondo.

Istanbul di nuovo, adesso come allora, si sottrae a una confidenza che pensi raggiunta per danzare via, ancora e ancora, come un derviscio perso nel mistero del suo cuore.

Ed è questo il suo incanto. È come una fame continua, una insaziabile voglia.

Alcuni cambiamenti ci sono stati, ovviamente. Come Santa Sofia, trasformata in moschea.

Ho provato più volte ad entrare, ma la fila impossibile di turisti me lo ha impedito.

E per il momento mi sono risparmiata  il disagio e la tristezza nel vedere il simbolo dell’incrocio tra culture diverse, come la stessa Istanbul, forzatamente trasformato da Erdogan in luogo di culto invece che segno cosmopolita di religioni che attraversano la Storia per entrare nel Tempo circolare, eterno, in cui lo Spirito sostituisce la Lettera. Ma lo Spirito è dei mistici più che dei religiosi. Lo sapeva bene Rumi, che nel medioevo scriveva nelle poesie mistiche “Io non sono Cristiano, né Ebreo, né Musulmano.

Io non sono dell’Occidente né dell’Oriente, né della terra né del mare.

Non sono stato formato dalla natura né dalle sfere celesti;

Né dalla terra, dall’acqua, dall’aria e dal fuoco.

Io non sono re né mendicante;

Non sono fatto di sostanza o di forma.

Né sono dell’India, Cina, o di un paese di frontiera;

Né della Persia, né la terra di Korasan.

Io non sono di questo mondo e nemmeno del prossimo (…)”. E così era per Santa Sofia, apparteneva a tutti e a nessuno, era segno sincretico e allo stesso tempo impermalente nella sua essenza. I tappeti al posto dei marmi, i mosaici coperti ( ma la loro potenza si beffa dei bavagli strategici), le visite confinate al di fuori degli orari di preghiera. No, non è questo lo Spirito di Santa Sofia. E nemmeno la sua Lettera più grossolana. È solo l’esibizione muscolare, è una mezzaluna piantata là dove c’era una croce. Ma lei, Santa Sofia, sfugge a ogni imprigionamento. Del resto il segreto è nel suo stesso nome. Sofia è conoscenza. Lei vola libera come i gabbiani che le danzano intorno.

 

E così ci sono riuscita, alla fine, a vedere Santa Sofia trasformata in moschea. No, non ne sono felice. E non per un fatto estetico o religioso ( alla religione che divide preferisco da sempre la metafisica che unisce) , ma per una questione di vibrazioni, di frequenze. Ogni luogo, come ogni persona, ha un’energia.

Quella di Santa Sofia era un’energia molto particolare generata dalle stratificazioni culturali che sono l’essenza stessa della città. Santa Sofia raccontava di Bizanzio, di Costantinopoli, di Islam e di successioni e conquiste. Era all’incrocio dei venti, come lei, come Istanbul. Era questa la sua bellissima energia, era esattamente fra la croce e la mezzaluna, era il mistero del luogo magico in cui non esiste più schema, categoria, appartenenza. Come accade all’alba, al tramonto, o nel mistero che accompagna la linea sottile che nel Sahara separa la sabbia dal cielo.

Santa Sofia non era né cristiana né musulmana, e allo stesso tempo era tutte le tradizioni, tutte le spiritualità. Ed era di tutti. Adesso è come ogni altra moschea. Tappeti sterminati, lampade basse, il nome di Allah e l’avversione per la blasfemia iconografica che, nell’Islam, sfida, perdendo, la bellezza e la possenza di Allah. Ho cercato di avvicinarmi all’Islam, a quello vero, quello nascosto nel cuore mistico ( come accade in tutte le religioni), quello più lontano da manipolazioni e poteri. Ma Santa Sofia non ha nulla a che vedere con tutto ciò.

È il risultato di uno sgarbo, di una volontà più politica che religiosa. E l’anima vera di Santa Sofia si è ritirata. Adesso si respira la stessa energia che abbraccia ogni moschea. Non è diversa da quella della Moschea Blu, la vicina che con lei rimbalza avanti e indietro le voci del muezzin attraverso il giardino e la piazza che le separa. Santa Sofia si è nascosta. Ma i secoli che la vestono non sono trascorsi invano ed è proprio all’ingresso che quel Cristo che annuncia all’interno il canto di Allah diventa simbolo e segno dell’impossibilità di seppellire quel cuore sincretico che tutto collega e abbraccia. Lassù Allah e Dio se la ridono delle nostre divisioni. Lassù, ma sarebbe meglio dire qui, a qualche millimetro da noi, separato dal velo di Maya, Tutto e Uno coincidono, e i ruscelli scompaiono nel fiume che scompare nel mare che specchia l’oceano infinito di stelle.

Santa Sofia rappresentava benissimo questa coscienza trasversale. Randagia nei secoli, né cristiana né musulmana, esattamente come scrive Rumi nelle sue immense poesie, raccontava di ponti, e non di mura.

E in qualche angolo la sua anima nascosta si rivela ancora a chi sa avvicinarla.

E tuttavia fa male vedere questa forzata trasformazione.

Perché sull’arte soffia lo Spirito che come il vento suona e canta la creazione, e annuncia il momento primo di ogni generazione.

E in Santa Sofia viveva l’impronta cosmopolita della spiritualità più autentica, al centro della ruota che gira e gira, come un derviscio, proprio per permettere al centro di manifestarsi.

No, non sono contenta che Santa Sofia, abitata dagli spiriti delle tradizioni, sia stata ridotta a luogo di un culto soltanto, che ne rappresenta solo una parte.

È snaturata, sventrata.

Dovremmo forse ricordare tutti che la vera preghiera nasce e muore nel cuore.

Non appartiene alle religioni, appartiene al silenzio intimo del mistero di ogni uomo che incontra veramente se’ stesso. Ed è lì che si trova l’enigma a cui ognuno ha dato un nome ma che in realtà, esattamente come Santa Sofia, sfugge alle definizioni.

Perché ogni volta che definiamo qualcosa , ogni volta che li releghiamo in uno schema, la sua natura interiore perde un pezzo, e muore un po’.

Io voglio ricordare Santa Sofia così come l’ho amata e conosciuta.

Di tutti, e di nessuno.

 

Parlandone con Ali, il mio amico curdo che ho ritrovato papà di un bimbo con occhi di cerbiatto, davanti all’immancabile tè mi sono impensierita.

Con Ali ci siamo scambiati disagi sulle manipolazioni sociali e politiche. E sulla  democrazia che l’occidente porta avanti ovunque in modo tutt’altro che democratico.

“In fondo, la religione è una democrazia”, mi ha detto Ali assorto, mordendo il suo panino alle olive.

Già, la religione è una democrazia. Ci penso spesso, a questa sua frase.

Forse, davvero, solo “la bellezza ci salverà”. E a Istanbul ce n’è tanta, di bellezza.

Dopo aver accarezzato uno dei cani randagi che abitano la città (qui non ci sono canili, i cani sono chippati e vivono tranquillamente, sonnecchiando o dandosi a scorribande di gruppo) quella stessa sera ho ritrovato un posto che amo tanto, e di cui ogni volta dimentico il nome. Ma non mi importa, so dove trovarlo, tra Santa Sofia ed Eminönü.

Seduta nei cuscini colorati per gustare un gozleme al formaggio ho tirato fuori il mio Moleskine nuovo, il taccuino immancabile dei miei gatti.

E mi sono trovata a scrivere, e scrivere, e scrivere. Recuperare il gesto calligrafico ha un significato molto importante che si è smarrito nel tempo digitale del mondo. La scrittura callifragica è segno, significato. Mantenere la nostra calligrafia ci rallenta in modo sapiente. E ci rende più “umani”, più vicini alla nostra essenza.

Quanto tempo ci tolgono, i cellulari. Quanta energia ci sottraggono.

Poche ora prima, nella vecchia fumeria che amo tanto, Erenler nargile ve chai Bacesi, a Fatih, seduta fra i turchi avevo notato, sconsolata, come ogni uomo sprofondasse nel suo cellulare coperto dal fumo del narghilè.

In questi nove anni i cellulari hanno modificato questo posto magico che allungava il tempo, lo sospendeva, trasformando l’ozio e la chiacchiera in navigazione solitaria sui social del cellulare.

Sembrava quasi un raduno della Apple, mentre l’unica mela, qui, dovrebbe essere quella dell’aroma delizioso sprigionato dal tabacco e dal tè.

Ed ecco che invece nel mio Moleskine ho ritrovato la gioia della lentezza, sprofondata nel cuscino e nella scrittura.

Mi sono sentita quasi una viaggiatrice d’altri tempi. Un’avventuriera delle geografie.

Ho pensato a quanto amo questa città, e il suo popolo.

Ai turchi perdono tutto, perfino i dolcetti serviti dall’hotel in un piattino sfigato di pastica, coperti dal cellophane e la camera con una porta interna comunicante con sconosciuti di cui mi arriva ogni respiro.

Di nuovo, oggi come anni fa, i turchi mi incantano con il loro modo caotico, stropicciato. Mi ricordano i napoletani, fra estro e melodramma. E, soprattutto, immersione nel cuore.

Quel cuore che batte, qui,  insieme a quello della città.

C’è poco da fare, ognuno di noi risuona in modo particolare con certi luoghi.

Io risuono con lei, con Istanbul. La sua energia innalza la mia vibrazione, la porta su, e ancora più su.

L’ultima notte prima di ripartire è riemersa quell’antica nostalgia che mi ha sempre riportata qui, più e più volte. Di nuovo, eccola tornare di nuovo, come una vecchia amica che non ti vuole lasciare.

Ho guardato fuori dalla finestra. I gabbiani volavano sopra le case, in lontananza ho sentito i suoni della città che non si addormenta mai, come New York. E già mi mancava. All’alba, mentre il muezzin intonava il suo canto, mi preparavo a un saluto che, lo sapevo, avrebbe anticipato un ritorno.

Non so stare senza Istanbul. Tornerò ancora. E di nuovo. Tornerò a cercare lei perché cercando lei trovo me. E ogni volta, la fiamma del desiderio accende fuochi nuovi.

Quante volte tornerò ancora? Non lo so. Ma so che lo farò. Sarà il destino a decidere. Inshallah.