Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Affinità elettive

Cosa unisce John Cassavetes e Martin Scorsese? I due giganti del cinema sono legati tra loro attraverso un gioco di rimandi e di specchi. Ve ne raccontiamo qualcuno.

di Alessandra Tesei

Esiste una corrente sotterranea che unisce John Cassavetes e Martin Scorsese.

Se si risale all’origine etimologica del termine “accolito”, si arriva a keleuthos, sostantivo greco che significa “sentiero” e che rimanda ad akolouthos, aggettivo che significa “seguente”, “che segue”. In italiano “accolito” può avere significati anche dispregiativi, che qui non si osservano, come non si vagliano le sue accezioni religiose. Qui si considera il significato più antico del termine, ossia “compagno di viaggio”, un uomo che segue lo stesso sentiero di un altro uomo più anziano, stimato, ammirato e amato.

Martin Scorsese e John Cassavetes sono stati compagni di viaggio e ci piace pensare che ancora lo siano.

In molte opere del regista italoamericano si possono scorgere ombre cassavetesiane, partendo dal suo primo cortometraggio, passando per Toro scatenato (Raging Bull, 1980), fino ad arrivare a The Irishman (2019) che, nel suo ritorno agli amici del passato, nella sua osservazione dei rapporti umani e nel tema del passaggio del tempo, è molto più vicino a Cassavetes di quanto possa sembrare a un primo sguardo.

Lo stesso Scorsese, a proposito del suo ultimo film, ha affermato che “lavorando con gli attori, cercando di catturare di nuovo una sorta di bellezza di movimento, di gesti, di dialoghi abbiamo provato a imparare di più su noi stessi. Guardiamo all’amicizia, al tradimento, al potere, alla fiducia, all’autoconservazione e quindi, forse, alla possibilità di una redenzione”. Affermazione che si riflette in un’osservazione fatta a proposito del suo collega e mentore: “l’approccio di John era caldo, avvolgente, focalizzato sulle persone. John era coraggioso, un vero ribelle che creava uno psicodramma dopo l’altro con la complicità di un gruppo di attori amici. Insisteva sul fatto di divertirsi mentre si faceva un film, cercando, allo stesso tempo, una sorta di verità, forse anche una rivelazione”.

Redenzione, rivelazione, la ricerca di qualcosa che trascende il piano del reale, dell’immanente, del corporeo, proprio attraverso l’immanenza, i corpi e le relazioni umane e quindi reali.

Nel modo in cui è usato il linguaggio cinematografico in Cassavetes e in Scorsese si avverte un amore incondizionato per la materia che si sta plasmando ed è anzitutto questo amore che ha avvicinato i due autori.

Le differenze tra i due registi sono ovviamente presenti, oltre che chiare alla percezione, ma quella che qui si vuole raccontare è la storia scritta dalle piccole e grandi correspondances che hanno tenuto i due artisti sempre vicini l’uno all’altro.

Nel corso degli anni, i due cineasti si sono incontrati spesso, sia nell’amicizia sia sul piano artistico.

Il primo incontro di Scorsese con Cassavetes, che si potrebbe definire un incontro spirituale, avvenne mentre il primo era uno studente di cinema alla New York University, tra il 1960 e il 1965. Ombre (Shadows, 1959) di Cassavetes uscì, infatti, nello stesso anno de I 400 colpi (Les quatre cents coups, 1959) di François Truffaut e fu proiettato a Venezia nell’agosto del 1960 e a Londra nell’ottobre dello stesso anno, contribuendo alla fioritura del nuovo modo di pensare il cinema che era iniziata in Europa con la Nouvelle Vague.

L’opera, che servì da stimolo per il giovane Scorsese, è ora considerata il punto d’inizio del cinema indipendente americano e il peculiare modo di Cassavetes di pensare e fare il film sarebbe stato d’ispirazione fino ai giorni nostri.

Nel 1967 Scorsese realizzò il suo primo lungometraggio, Chi sta bussando alla mia porta (Who’s that knocking at my door) – che Cassavetes ebbe modo di apprezzare molto – in cui si possono facilmente notare diverse influenze, ma che mostra già il guizzo geniale dello Scorsese che il cinema ha imparato a conoscere.

Il film segnò, potremmo dire, l’incontro di Cassavetes con Scorsese, da quel momento il primo si sarebbe sempre interessato alla carriera del regista più giovane.

Dopo questi rispettivi incontri spirituali, tra i due registi avvenne il primo incontro faccia a faccia – nel 1971, a New York, durante una proiezione di Mariti (Husbands, 1970) di Cassavetes. Solo qualche mese dopo questo primo incontro, però, sarebbe iniziato davvero il rapporto di stima e amicizia che avrebbe sempre legato i due registi. Durante il periodo in cui avveniva il montaggio di Minnie e Moskowitz (Minnie and Moskowitz, 1972) nella primavera-estate del 1971, Cassavetes offrì un alloggio e un impiego a Scorsese come aiuto addetto al montaggio audio; un lavoro che non lo vide collaborare molto al film e che durò per breve tempo, poiché in quel periodo Scorsese iniziò a girare America 1929 – Sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) per Roger Corman.

Quelle settimane passate a lavorare insieme furono tuttavia sostanziali per le fondamenta della loro amicizia.

Cassavetes non apprezzò America 1929 e lo comunicò a Scorsese di persona: “Marty, hai passato un anno della tua vita a produrre una porcheria. Tu sei meglio della gente che fa questo tipo di film. Fai qualcosa di personale. Non c’è qualcosa che vuoi dire davvero? Perché non fai un film su un argomento che ti interessa veramente?”.

È essenziale citare queste parole perché fecero in modo che Scorsese iniziasse, di lì a poco, a ideare Mean Streets (Domenica in chiesa, lunedì all’inferno, 1973), il suo primo grande successo di critica e pubblico.

 

Mentore, collega e amico, John Cassavetes ha ispirato e influenzato Martin Scorsese ed è molto probabile che, in alcuni momenti, Martin Scorsese abbia influenzato John Cassavetes.

La corrente sotterranea di cui parlavamo all’inizio, nei momenti in cui è salita in superficie, ha lasciato delle tracce che ritroviamo all’interno di quattro delle loro opere più importanti.

Una moglie (A woman under the influence, 1974)  e Toro scatenato (Raging Bull, 1980)

Nelle opere di Cassavetes e Scorsese, in modo uguale e diverso, l’attore è colui che plasma la storia. I protagonisti che i due registi mostrano sullo schermo si incidono in profondità nella mente – e nel cuore – dello spettatore.

Fin da Mean Streets, è evidente la nitidezza e il peso con cui Scorsese delinea i suoi personaggi e, quindi, sceglie i suoi attori; Toro scatenato è uno dei maggiori esempi che il cinema possa offrire del ruolo fondamentale dell’attore, anche e soprattutto per il lavoro svolto da De Niro sulla recitazione.

In Scorsese il personaggio è un gigante che si impone visivamente ed emotivamente – la macchina da presa è dedicata a lui e lo è allo stesso modo in Cassavetes, a cominciare da sua moglie Gena Rowlands, che il regista ritrae in modo quasi sacrale. In Volti (Faces, 1968) i primissimi piani degli attori riempiono lo schermo, a chiarire fin da subito che sono loro l’impulso e la forza creatrice di ciò che stiamo guardando e, in L’assassinio di un allibratore cinese (The killing of a Chinese bookie, 1976), la trama si avvolge e si dipana letteralmente attorno a Ben Gazzara-Cosmo Vitelli.

Nei film di Cassavetes, lo sguardo del regista ci getta in mezzo ai personaggi e alle loro storie, non ce li presenta con eleganti convenevoli, non ce li descrive: ce li fa vedere e noi li seguiamo, insieme alla macchina da presa, per scoprire chi sono attraverso gesti, dialoghi, facce. Ci riscopriamo così a conoscere questi personaggi – che sono persone – e ad amarli come li ama il regista.

I film di Cassavetes sono dei luoghi che lo spettatore attraversa. Provocano emozioni e restano incisi nell’anima come fanno i luoghi; sono dei territori in cui recarsi e che si comprendono pensandoli anzitutto emotivamente.

Partendo dalla sua prima opera cinematografica, Ombre, vediamo come il cinema di Cassavetes sia un cinema in cui scorre una linfa vitale che non si arresta, che fluisce attraverso i gesti, le parole e i movimenti. Quella linfa non si estingue mai, ma si trasforma insieme agli organismi in cui scorre, legandoli l’uno all’altro.

Cassavetes e Scorsese, inoltre, hanno spesso usato l’attore come alter ego. In Cassavetes troviamo innanzitutto Gena Rowlands e Ben Gazzara; in Scorsese, Harvey Keitel e Robert DeNiro.

De Niro riempirà il cinema di Scorsese, diventando il suo alter ego non tanto per il fatto che il regista riveda sé stesso in alcuni dei personaggi interpretati dall’attore, quanto perché De Niro è complementare a Scorsese. Impiegando un’analogia pittorica, è come se la figura di De Niro venisse dipinta, fissandosi indelebilmente nell’occhio dello spettatore. De Niro è sia il mezzo per creare l’opera sia l’opera stessa, come lo è Gena Rowlands nel cinema di Cassavetes.

Figure, corpi impressi sulla tela dello schermo.

Come esempi assoluti del concetto di corpo nel cinema dei due registi, come punti massimi di questa concezione, è necessario parlare di Una moglie e Toro scatenato e dei loro rispettivi protagonisti, Mabel Longhetti e Jake LaMotta.

La creazione di entrambi i film è pervasa da fatica e sofferenza. Per Cassavetes Una moglie fu un pesante fardello emotivo, mentre Scorsese, quando De Niro gli propose l’idea del film, si trovava in ospedale in gravi condizioni di salute e in una situazione difficile sia dal punto di vista personale sia da quello creativo.

Le vicende reali che riguardano i due registi esercitano una forza che si ripercuote sui personaggi: le emozioni come forze creatrici sono presenti in entrambe le opere e formano i due protagonisti.

Qui non si considerano tanto i caratteri dei due personaggi, ma la materia in cui vengono plasmati e la forma che assumono, ovvero il corpo e l’essere umano.

Sono due opere, queste, estremamente umane e oneste, fatte di carne e sangue – due esempi magistrali del corpo che recita. I corpi dei due protagonisti sono accompagnati dalla musica – durante i rispettivi film, troviamo due opere classiche intrinsecamente legate ai personaggi: la Cavalleria Rusticana di Mascagni in Jake e Il Lago dei Cigni di Čajkovskij in Mabel.

Mabel si muove in continuazione, è sempre irrequieta, danza, gesticola, si esprime attraverso il proprio corpo – un corpo che abbraccia i figli, lotta con la famiglia e respinge e richiama a sé il marito Nick.

Jake è colmo di rabbia, insicuro e ossessionato dalle proprie prestazioni e dalla propria gelosia; vive con violenza, che esprime quotidianamente sia sul ring sia in privato, contro suo fratello e sua moglie Vicky. Il suo corpo è in continua tensione, è nervoso e sempre sull’orlo della deflagrazione.

“Nessuno scudo difende l’anima o il cuore di nessuno. È tutto aperto”. Tale affermazione di Cassavetes potrebbe benissimo riguardare entrambi i film: questi sembrano assomigliare a due ferite, le quali, finché non abbiano eliminato tutte le tossine, non possono guarire.

Questi due modi di esprimere il corpo si trasformano nei finali dei rispettivi film. Mabel, di ritorno dall’istituto psichiatrico, è molto più calma, incerta ed esitante, ma non è sé stessa; questo porta a un nuovo aumento di pressione emotiva che scoppia in un tentativo di suicidio, bloccato da Nick. In seguito giunge la calma, poiché Mabel ha espresso a modo suo ciò che aveva dentro di sé.

Jake, invece, interrotta la sua carriera di pugile e alienatosi tutti gli affetti familiari, trasforma il proprio corpo, lo appesantisce – come realmente fa De Niro, ingrassato di venticinque chili per interpretare la parte – e questo non è più attraversato dalle tensioni ossessive della sua giovinezza. Quando incontra suo fratello Joey, lo abbraccia, il suo modo di esprimersi sembra essere cambiato: all’inizio del film Jake chiede a Joey di colpirlo in faccia, mentre durante il loro incontro finale gli chiede di dargli un bacio.

Ora l’ex pugile si esprime attraverso frammenti di recitazione, comici o drammatici. L’ultima esibizione che ci viene offerta da lui è il brano di Fronte del porto (On the waterfront, 1954), davanti allo specchio del suo camerino, e noi sentiamo che, come afferma lo stesso Scorsese, finalmente “l’uomo sta giungendo a una sorta di pace all’interno di sé stesso”, anche se alcuni resti di ciò che era rimangono dentro di lui. Prima di salire sul palco, mima i gesti di un pugile e colpisce l’aria – forse sta arrivando in lui una sorta di calma, ma il suo corpo non riesce ancora a fermarsi.

Mabel e Jake, inseparabili dai loro corpi, chiedono entrambi la medesima cosa, perfettamente espressa dalle parole di Gérard Wajeman: “Guardate il mio corpo, in nessun altro luogo se non in esso troverete la risposta alla domanda che io pongo”.

The Irishman (2019) e L’assassinio di un allibratore cinese (The killing of a Chinese bookie, 1976)

Nel più recente film di Scorsese sembra di percepire, in alcuni momenti, un’ombra che appartiene a L’assassinio di un allibratore cinese di Cassavetes.

Consideriamo, nei rispettivi film, determinate inquadrature che seguono lo sguardo di due personaggi: in Scorsese, la macchina da presa è l’occhio di Peggy, mentre in Cassavetes è quello di Rachel. Peggy è una delle figlie di Frank Sheeran e, già da bambina, vede la vera faccia di suo padre verso il quale proverà sempre sospetto e paura, cosa che la porterà a troncare ogni rapporto con lui. Nei momenti dedicati a Peggy, in età diverse della sua vita, la macchina da presa segue il suo sguardo che osserva suo padre, permettendo anche a noi di scorgere la vera faccia dell’uomo. Rachel è, invece, una delle ballerine del night club di Cosmo Vitelli, colei che potrebbe avvicinarsi di più all’essere la sua compagna. Senza dubbio la ragazza è innamorata dell’uomo e proprio alcune inquadrature ci fanno capire che stiamo guardando Cosmo con gli occhi di lei, innamorata, gelosa e preoccupata per lui.

Durante tutto il film di Scorsese, inoltre, sono visibili diverse inquadrature di automobili che procedono lentamente, elemento che troviamo anche nel film di Cassavetes: automobili che camminano a passo d’uomo, accelerano, rallentano, parcheggiano, scrutano – trasmettono la sensazione di qualcosa che sta per accadere, che incombe sui personaggi. Anche a proposito di questo elemento, si potrebbero paragonare le sequenze delle uccisioni di Jimmy Hoffa e dell’allibratore, nei rispettivi film. Sono due sequenze lunghe, fondamentali, in cui allo spettatore viene chiesto di concentrarsi. Sono composte da movimenti lenti, prima di automobili, poi di personaggi. Le automobili vengono sempre seguite dalle inquadrature. Nel film di Cassavetes, l’auto di Cosmo ha un guasto e lui, dopo aver chiamato il Crazy Horse (il night club di sua proprietà), prende un taxi; dopo aver ucciso l’uomo, ritorna a casa salendo prima su un autobus, poi su altri due taxi. Nel film di Scorsese, Frank, dopo essere sceso dall’auto di Russell, prende un aereo, poi due automobili. In entrambi i film, lo spettatore segue continuamente i due protagonisti.

Si potrebbero confrontare anche i due tipi di assassini: Frank è un professionista, quello che deve compiere fa parte del suo lavoro, ma in quel momento deve uccidere un uomo al quale è legato da anni; Cosmo non è un criminale, è il titolare di un night club e un giocatore d’azzardo che si ritrova a dover uccidere un uomo per non morire lui stesso. Anche se gli uomini sono molto diversi tra loro, quindi, entrambe le situazioni hanno un valore molto simile nelle loro vite.

Anche i momenti in cui vengono pianificati i due omicidi, pur non avendo la stessa forma, hanno lo stesso peso: in Scorsese, Russell, durante la colazione, dà a Frank istruzioni di logistica su quali mezzi prendere e dove andare; allo stesso modo, in Cassavetes, Cosmo viene istruito su quale automobile usare e che strade prendere per giungere alla casa dell’allibratore.

Sono due sequenze che si prendono il tempo che serve loro per raccontare la loro storia, esattamente come i film delle quali sono parte.

Le parole che Cassavetes usa (proprio in una conversazione a proposito de L’assassinio di un allibratore cinese) per descrivere tutto il suo lavoro si adattano alla perfezione anche all’opera di Scorsese: “Il mio lavoro è esplorazione. È porre continue domande alle persone: quanto intenso è il tuo sentimento? Quanto sai? Sei consapevole di questo? Puoi affrontare questo? Un buon film ti pone domande che non ti sei mai posto prima. Il film è un’indagine sulla vita. Su ciò che siamo. Su quali sono le nostre responsabilità – se ne abbiamo. Su cosa stiamo cercando; che problemi hai tu che potrei avere anch’io? Di quale aspetto della vita vorremmo entrambi sapere di più?”.

Il legame artistico tra John Cassavetes e Martin Scorsese non si è mai spezzato.

Ancora oggi, il regista italoamericano non esita a considerare il suo amico e collega più anziano come uno dei maestri del cinema statunitense (e non solo) e come uno di coloro che hanno maggiormente ispirato il suo amore per l’arte cinematografica.

E proprio questo amore che entrambi provano nei confronti dell’atto del creare opere cinematografiche esce dallo schermo e incontra noi, senza mai interrompere il suo flusso.