Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Cronaca al nero di Seppia

di Edoardo Brunetti

Sono trenta  giorni che la gente si sveglia e vede te. Esci dalla bocca di tutti e entri nelle orecchie di altrettanti. Continuamente. Ad ogni ora, ad ogni minuto.
Sei la ragazza del momento.
I bambini, beati finché rimarranno tali, chiedono di te ai loro genitori. E questi, disgraziati e confusi, rispondono diversamente da come fanno in assenza di pargoli. Sì, perché, non ti credere, parlano di te anche tra di loro, gli adulti.
Tutti parlano di te, non so più come dirtelo.
E io sono tra i (principali) responsabili.
Non mi devi ringraziare, ovviamente. La gratitudine non è esattamente il sentimento che pretendo ricevere in questa situazione.
Odio, cara ragazza; mi devi odiare. Anche se mi chiedo: possono i morti odiare?
Ovviamente no, i morti, specialmente quelle anime innocenti strappate prematuramente e violentemente alla vita, non odiano. Hanno sogni e speranze, sorridono, saltano la corda e la loro anima si riempe di sentimenti puri di fronte allo spettacolo cromatico degli arcobaleni. Almeno questo è ciò che loro – noi – cerchiamo di dirvi. Di vendervi.
All’inizio mi sentivo (o mi raccontavo) di essere un messaggero della verità. Un araldo del popolo affamato di conoscenza. “Affamato”. Ci ritorneremo su questo, cara ragazza.
Mi sono presto reso conto che c’era qualcosa di macabro in tutto ciò. Di sbagliato. Come la gente attendeva le notizie; con quella malsana bramosia. Come ne parlava. Come sorrideva – perché sorrideva? Quella fame di conoscenza assomigliava più a una lurida ingordigia sorda ai brontolii di pietà dello stomaco.
Poi realizzai che quella immagine su carta stampa non era solo tale. Quel corpo supino su una spiaggia. Quel Pinocchio nuovamente regresso a una fase organica non più umana, stava venendo distrutto da me persino più che dal suo assassino di carne.
Raccontavamo di emozioni di carta, ben più nobili e bidimensionali di quelle umane.
Ti hanno – abbiamo, e ti chiedo scusa – imbottito di sogni, ambizioni e speranze non tue. E ti chiederai: “Beh, fino a qua, che differenza c’è tra me e chi è vivo?”
Forse nessuna.
Ma forse ingenuamente speravo che, almeno dopo la morte, le ipocrisie e i sorrisi che nascondono tutt’altro potessero finire.
Sì, speravo in qualcosa e facevo l’opposto. Ero lì in prima linea a farcire te e la tua storia; a renderla così piena e grossa che tutti avrebbero potuto averne un pezzetto.
Questa macabra ossessione che abbiamo per la morte, purché non sia la nostra.
Ti sei persa nella città degli angeli, Wilma?
Angeli che strizzano l’occhio a orgie e tangenti. Cosa facevi là, tu che adori il cinema e le altalene?
Cosa facevi là, così inopportunamente senza vita, in quella spiaggia, tu che avevi tanti rosei piani per il futuro?
Molti per le strade si chiedevano – come se non ci fosse stata una guerra fino a qualche anno prima – :”ma si può morire a 20 anni?”.
La domanda che mi faccio io è: “ma si può essere lasciati in pace dopo che si muore a 20 anni?”.
E a ciò non saprei cosa rispondere. Soprattutto se cercassi qualcosa di confortante da dire. Ma è fastidioso perché tu, anche se volessi, non potresti rispondere. E la tua vita continua a scorrere senza di te. Senza di te, Wilma, corpo e persona, ad incapsularla e, per quanto possibile, a dirigerla dove vuoi.
Verso i tuoi sogni. Quelli veri. Quelli che forse, e dico forse, neanche tu sapevi di avere.