Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Abitare l’amore

di Francesca Pacini

La lingua araba ha sessantasei nomi  per definire l’amore. E ha ispirato la bellissima opera di Nacer Khemir, regista, scrittore e pittore tunisino di fama internazionale, che in una mostra raduna le sue riflessioni sul tema, pubblicate in un volume, insieme all’esposizione dei suoi quadri calligrafici. Lo abbiamo incontrato a Istanbul.

 Nacer Khemir è scrittore, regista, pittore e scultore di origine tunisina ma in realtà cosmopolita, figlio del mondo. Meglio ancora, figlio del vento di quel deserto che racconta con un simbolismo poetico di rara bellezza. “Non si abita un paese, si abita una lingua”, afferma.  Sicuramente  la lingua araba abita l’amore: esistono sessanta modi per definirlo, e le sue ispirate riflessioni su questo tema sono state  raccolte in una pubblicazione tradotta in varie lingue, che viene presentata insieme ai dipinti calligrafici che rappresentano proprio questi nomi, segnati dalla maestria di forma e colore.

Incontrarlo e intervistarlo  a Istanbul è una sorpresa e un dono. Perché è proprio sulla via di Istanbul , e  dei sufi, che anni fa ho incontrato un film importantissimo per il  mio cammino: Bab’ Aziz. Ora, a distanza di dieci anni, “casualmente” (non credo al caso) incontro e intervisto il suo autore.  Bab’ Aziz è uno dei film  della trilogia del deserto insieme a I figli delle mille e una notte (Les baliseurs du desert) e La collana perduta della colomba ( Le Collier perdu de la colombe). La sua produzione cinematografica gli è valsa premi importanti come Il Premio speciale della giuria al Festival del film Locarno.

E ora proprio qui a Istanbul, la città che trattiene il mio cuore, lo intervisto. Ẻ un uomo schivo e allo stesso tempo  molto gentile, affabile, che fa della riservatezza una sorta di pudore dell’anima. Il suo mondo interiore vive nella poesia delle sue opere.

La  sua  arte è caratterizzata dalla ricerca. La ricerca della bellezza, dell’amore inteso come essenza, al di là del tempo e della materia.

Davanti alla solitudine si risponde  con un bisogno d’amore perché l’uomo non può vivere senza queste due cose: il desiderio e la legge. Il mercato ha però  trasformato il desiderio in mercanzia per avere soddisfazioni che possono dare l’illusione dell’amore. L’uomo oggi è solo, è isolato, ha “freddo. Pensa che la ragione sia la sola legge della vita, e che tutto debba esserle sottomesso.  Dunque il visibile, il palpabile, il  concreto. Non si tiene conto della dimensione invisibile.  La modernità ha tagliato l’uomo dalla sua storia, da qui questa  sorta di malessere, di infelicità. Nel mio lavoro c’è anche il tema dell’essere orfani, della mancanza: l’uomo è orfano della sua storia.  Ha la sensazione di essere solo dalla nascita alla morte, e di morire immerso in una solitudine immensa.  Il tema della solitudine ingloba ogni spazio.

 

Penso a cosa sta dicendo. E penso ai suoi film. Cartesio diceva “Penso, dunque sono”. La vostra opera invece sembra suggerire “Immagino, dunque sono”. L’immagine è molto importante…

Sì, ed è un aspetto specifico del mondo orientale, del mondo musulmano in particolare, perché è la cultura dell’ascolto orale, dell’oralità. Si ascolta. L’immagine appartiene al dominio dell’invisibile, non appartiene al dominio del visibile. Esiste, ma esiste in modo diverso. E, dato che in questa epoca l’immagine domina, ho indagato su  come passare dal mondo orale al mondo dell’immagine di un’altra cultura.  Nei miei film  do spazio all’invisibile, a una presenza inesplicabile. Questo elemento si trova in tutta la cultura orientale, si tratta di uno slancio d’amore, di un cammino che prende ogni sorta di forma, e che si manifesta a ogni età.

C’è una malinconia simile a quella del ney. La donna è un mezzo che aiuta la ricerca dell’amore, per arrivare a un’altra forma d’amore, superiore, sublime. Questa melanconia come viene affrontata nella società moderna? E questa società è davvero capace di sentirla?

La malinconia è una forma di gentilezza,. L’uomo con la sua capacitò di moltiplicare ha l’impressione di poter usare tutto, ma alla fine scopre il nulla. Questa melanconia sottolinea che si nasce comunque nello slancio, nella ricerca.

 

Parliamo del deserto e della lingua. Che relazione hanno?

Per me il deserto è la stessa lingua araba. L’arabo, infatti, nasce nel deserto. Preferisco il sentimento della solitudine nel deserto, piuttosto che nella società. La solitudine nel deserto mi spinge verso la solitudine nell’universo. E questo sentimento appartiene a un’altra dimensione. Lì abbiamo l’infinitamente piccolo, come i granelli di sabbia, e l’infinitamente grande. Dunque l’universo dona subito la sensazione del proprio spazio, del proprio luogo, in questo stesso mondo.  Come direbbe Spinoza, in una goccia c’è il mare intero. Allo stesso modo, in un granello di sabbia c’è l’universo intero. Ẻ quasi spaventoso.

 un po’ come l’Aleph di Borges…

Amo molto Borges. Sì, è così. E la lingua è veramente la metafora più diretta. Ẻ ciò con cui viene  nominata  cosa sta intorno all’uomo. Ovviamente ogni lingua ha i suoi colori. Ma la lingua araba ha la caratteristica di essere nata nel deserto.

Si tratta di un vero un sistema filosofico. La lingua è tutto. Se non nominiamo qualcosa, non esiste. Quando mi sono spostato dalla Tunisia, ho compreso molto bene il valore della terra che ho lasciato. Passando dalla lingua araba al francese ho veramente riflettuto su come la lingua araba sia ricca…

 

Nacer Khemir che parla arabo e Nacer Khemir che parla francese. Dove si incontrano?

Nell’emozione. Ho scoperto che ci sono sessanta modi per dire amore in arabo. Ẻ qualcosa che mi ha veramente costretto a interrogarmi, e che in un certo senso mi ha turbato. Ho spesso frequentato conferenze in cui si disquisiva per ore sulla lingua araba ma ho compreso che c’è un solo modo per far sì che una lingua arrivi veramente a un’altra cultura, ed è proprio l’emozione. Genera un  vero e proprio “shock emozionale”, in un certo senso. In questo modo si comprende che una civiltà, una cultura che ha sessanta modi per definire la parola amore è qualcosa di speciale.

Alcuni allievi che hanno visto l’esposizione delle mie opere in cui ho rappresentato  i sessanta nomi dell’amore non hanno detto nulla. Quando ho incontrato la loro professoressa ho chiesto il perché. Lei mi ha risposto: “Sono scioccati. Hanno detto che fa di loro un popolo ossessionato dal sesso” (ride,ndr). E così ho “scoperto” la disgrazia della modernità. L’amore non ha nulla a che vedere con il sesso! Nulla! E una delle sfortune degli arabi, oggi, è che non comprendono fino in fondo il valore della loro cultura.

Ho riflettuto sul perché gli arabi abbiano  sessanta nomi per l’amore. Perché le altre culture non ne hanno altrettanti?

E ho scoperto in questa occasione che gli eschimesi hanno più o meno altrettanti nomi per indicare la neve. La neve della notte, la neve bagnata, la neve dell’alba, la neve che fa rumore, la neve che non fa rumore, la neve che canta, la neve con il vento….

Quindi la neve è un altro tipo di deserto. Un deserto di neve…

Si, ma il popolo inuit ha trovato il modo di nominare ogni situazione in cui si presenta la neve. “La neve bagnata”, ad esempio. Si tratta di un’indicazione fisica. Vuol dire che la neve è al centro della loro vita. Per questo l’hanno nominata. Non l’hanno nominata per gioco. La neve trasforma il loro vissuto quotidiano.  Ẻ in diretto contatto e trasformazione insieme alla vita stessa.

Molto interessante. In molte tradizioni antiche si dice che facciamo vivere qualcosa soltanto nominandola.

Certamente. Ciò che non è nominato non esiste. In questo caso mi sono domandato: se questo è l’impatto della neve sugli inuit, allora che impatto ha il deserto sugli arabi? Gli hanno dato sessanta nomi…

L’uomo nel deserto, sia che si trovi in gruppo che sia da solo, si trova di fronte alla morte. L’unica cosa che si oppone alla morte è l’amore. Non esiste nient’altro. L’amore si incarna nel femminile.  L’uomo nel deserto si sposta da una fonte d’acqua a un’altra, perchè l’acqua è essenziale. Il suo viaggio nello spazio si articola attraverso le fonti d’acqua. E ogni volta che arriva a una fonte d’acqua trova la donna.

L’acqua simbolicamente è il femminile…

Intorno alla donna, che è anche il nutrimento della vita. L’uomo dunque è sempre in uno stato di desertificazione fra due fonti di acqua, dovuto a questa ossessione dell’amore.

I  poemi arabi classici iniziano così

“Par s’arreter sur la trace de la bien aimeé

Que le vent est en train d’effacer “

Che vuol dire? Significa che la vita è effimera. E il poema tiene la traccia dell’amata, ma non l’amata. La fragilità dell’essere è estrema, il gusto dell’eternità è tutto nel poema. Nei miei film  cerco di tradurre questa cultura.

Oggi abbiamo perduto il senso poetico. Quando Pasolini è morto, Alberto Moravia, che era suo amico, ha detto al suo funerale che assassinare un poeta è  un crimine perché la nascita di un poeta è un fatto raro. Come si può salvare la poesia?

Adoro Pasolini. Lavoro molto sulla “strada dei poeti assassinati”. Sono  la traccia di un uomo sincero, onesto, che non vuole guadagnare nulla, che non è un commerciante. Ognuno vive come vuole, senza giudizio.

 

Non è un poeta, lei. Ma le sue opere sono piene di poesia.

Sì, si tratta del mio pensiero.

Esattamente. Il suo pensiero  è poetico. Anche l’uso simbolico delle immagini che fate è molto poetico. L’acqua, il femminile, lo specchio, la calligrafia. Ci sono molti livelli di lettura…

Sfortunatamente la cultura arabo- musulmana è stata abbandonata a favore di una modernità pratica. Non ho nulla contro questo, ma diventa una schiavitù.

Ho perduto mio padre quando ero molto giovane, ma sono anche orfano di una cultura. Ho cercato in ogni modo di capirla, quindi faccio molta attenzione a tutto. Facciamo un esempio. L’acqua è essenziale  nella vita e  nella cultura araba. L’ho capito fino in fondo quando sono arrivato a Parigi, ero completamente ipnotizzato  dalle fontane.  Era  magico per me, mentre per gli altri era un fatto ordinario. In famiglia non si può bere acqua senza fiori d’arancio. Il fiore d’arancio ha una forma precisa.  Nelle fontane costruite da chi nella mente custodisce l’acqua collegata al fiore d’arancio vive questo ricordo. Non potendo inserirlo in grandi fontane, ecco che allora diventa un motivo ornamentale. Quindi l’idea del fiore d’arancio è là, anche se il fiore è assente. E tutto è così,  in questa cultura…

 

 una cultura che parla direttamente al cuore. I simboli, la tradizione orale, la metafora che appartiene agli antichi e in particolare all’antico mondo arabo, è stata perduta…Ora siamo troppo razionali.

L’ospitalità della tradizione appartiene al deserto, Se arriva qualcuno non puoi mandarlo via, perché lì allontanare significa condannare a morte. L’ospitalità implica comunque una certa riserva, un certo pudore. L’altro ha bisogno di te. Lo scambio però non è diretto. Si accoglie la persona senza fare troppe domande, non si chiede chi è, da dove viene. Non lo si fa almeno per tre giorni. Alla fine del terzo giorno si ha il diritto di interrogare.

Sono tradizioni antiche. Oggi si pensa che la cultura araba sia esuberante, non è vero. Se la si guarda bene, non è la donna a essere velata. Ẻ l’uomo!

Esiste tutta una  cultura del visibile, dell’invisibile.

E del giardino…

Il giardino nella cultura araba è solo quello interiore. Non è uno spettacolo, un paesaggio…

Il giardino è l’emanazione del paradiso, e il paradiso è invisibile.

 

Una cosa che ho molto amato in Bab Aziz è il fatto che non vede, che è cieco, perché vede con il cuore.

Esattamente. Possiede l’intelligenza del cuore.

 

Lei scrive libri per bambini.

Sì, adoro scrivere per i bambini

 

I bambini sono vicini all’anima, incontaminati. In questo momento, mentre parliamo, ci sono bambini che vengono ammazzati a Gaza. Come si può essere umani in questi giorni? E tollerare questa sofferenza?

La storia della Palestina è una storia di ingiustizia cronica, e antica, avallata dai potenti del mondo. C’è un ragazzo americano che si è dato fuoco per testimoniare questa violenza. Non è possibile “risolvere” il mondo senza risolvere la storia dei palestinesi. Lo spirito americano – e non è il solo – costruito sull’assassinio del popolo indiano. Oggi non è possibile ripetere la stessa cosa.

 

A natale, un reverendo in Palestina ha detto che Gaza è “il compasso morale dell’umanità”.

Sì, esatto. Ẻ la frontiera. Sicuramente ciò che hanno fatto gli americani agli indiani non potrà essere ripetuto in Palestina. C’è una carneficina portata avanti da un governo di estrema destra. C’è un popolo oppresso, il popolo palestinese. Oppresso da decenni. Il primo passo verso la giustizia?  Constato come ci siano due pesi e due misure. L’Europa ha fatto pagare ai palestinesi il suo crimine. Non sono responsabili del genocidio che fu commesso nel cuore dell’Europa. L’Europa si è sbarazzata  della sua colpa  facendo  pagare ai palestinesi colpe che non hanno commesso. Ẻ una questione politica, una questione di colonizzazione. I palestinesi non abbandoneranno mai la loro terra. Bisogna anche dire agli Israeliani che non possono vivere con una guerra senza fine. A loro non resta che una scelta per la pace: riconoscere i diritti dei palestinesi.

 

Si tratta di un bivio per tutta l’umanità

Ognuno deve fare la sua scelta.

Bisogna scegliere. Ed è  proprio questo che volevo chiedere: la scelta. Essere nel mondo ma non del mondo. Dunque agire, riflettere? Come in questo caso. Fare? O solo meditare e prendere una posizione interiore?

Ognuno fa ciò che può. Mio padre ha dato la sua vita per l’indipendenza della Tunisia. Ha lottato tutta la vita, in questo senso, dai vent’anni fino alla sua morte, con ogni mezzo. Nel ‘36’ ha raccolto fondi per la Palestina, nel ’37 i fondi per l’Algeria…tutta la vita è stata una lotta. Ẻ come nei tema dei baliseurs che vogliono aprire una strada nella speranza, che però la sabbia finisce per cancellare. Ẻ il tema del mondo arabo. Quante generazioni di politico, poeti, di uomini di ogni tipo lottano affinché  il mondo arabo esca dal suo malessere. Oggi questo mondo è più distrutto che mai. Basta guardare l’Iraq, la Libia, la Siria…c’è distruzione ovunque. E molta infelicità. E per questo la notte è sempre più buia e bisogna quindi preservare la luce.

Non so come si possa preservarla. Io la preservo con le cose che faccio. Provo a tessere la speranza. Qualunque cosa diventi.

 

Dostoevskij diceva che bellezza salverà il mondo…

Sì, conosco questa frase.

 ancora possibile?

Non so. Il problema non è vincere o perdere. Bisogna portare fino in fondo questa speranza.

C’era un attivista italiano che si chiamava Vittorio Arrigoni, è stato ucciso. Era andato a Gaza per aiutare, soprattutto i bambini. E’ stato assassinato da un gruppo di estremisti per uno scambio di prigionieri . Diceva che “dobbiamo restare umani”. Forse questo?

Sì, certo. Bisogna preservare dentro noi  stessi questa sorta di ospitalità dell’essere umani. Altrimenti si è distrutti.

Ho un’ultima domanda. Il deserto non lascia tracce. Anche Rumi diceva che il deserto non lascia tracce perché ha trovato Dio nel cuore. Ma quale è la traccia che voi vorreste lasciare nel mondo?

Per me non è importante. Ciò che conta è non accettare la schiavitù volontaria. Ẻ  come se mi fosse stato consegnato qualcosa, e bisogna che io la conduca da qualche parte, non so dove e non come. Ma so che devo correre il più veloce possibile per guadagnare più spazio possibile. Il mio sforzo costante, quotidiano, è quello di correre il più veloce possibile

Più veloce del tempo…

Più veloce del tempo perché il tempo non perdona. La mostra sui nomi dell’amore fa riflettere i giovani che la visitano. Incontrano le emozioni, e scoprono meglio l’altro attraverso un  gusto, e non attraverso la ragione.  Quando li incontro, mi dicono che è  come se mi conoscessero senza conoscermi. Esisto in loro senza che io li conosca.

Anche perché si fa parte della stessa umanità. In lei c’è qualcosa che mi fa pensare a Borges. L’universalità di alcuni messaggi…

Sì. Adoro la pittura. Dipingo di tutto. Avevo un giornale su cui dipingevi tutto, tempo fa . L’ho perso. Quando mio padre è morto è come se da sotto i piedi mi fosse stato tolto tutto. Sono diventato orfano e nomade. Ma la pittura non è nomade. Eì molto difficile.  Ho continuato a dipingere ma sono diventato nomade. E non appartengo più a una nazione, un paese. Appartengo all’incontro. Mi ricorda una storia. Mi chiesero come facessi a passare da città a città, e come facessi a connettere le cose. Sono cittadino di quella città, e di ogni altra città in cui vado.

E siete cittadino di Istanbul.

Decisamente!

 

Alcuni link utili

 

Bab Aziz

 

Whispering sands (versione in inglese)

https://www.youtube.com/watch?v=XMORx1rpA9w

 

Bab Aziz

 

Il collier  perduto della colomba (versione in inglese)

https://www.youtube.com/watch?v=YMDYLhHuGa4

 

I figli delle mille e una notte (versione in inglese)