Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Visitare un paese? No, grazie

di Francesca Pacini

Viaggiatori e turisti sono molto diversi fra loro. E la differenza principale sta soprattutto nel numero (il vero viaggio si compie da soli) e nell’attitudine verso la scoperta. Troppo spesso, infatti, si rischiano safari antropologici, culturali, gastronomici senza mai sfiorare l’anima di una terra…

 

Non vivere su questa terra
come un inquilino
oppure in villeggiatura
nella natura
vivi in questo mondo
come se fosse la casa di tuo padre

Nazim Hikmet

 

Il viaggio è una metafora della vita e della morte (“partire è un po’ come morire, come saggiamente scriveva Edmond Haraucourt).

Si viaggia per staccare dal quotidiano, si viaggia quando arrivano le sospirate vacanze, si viaggia per lavoro, si viaggia quando si ha bisogno di metabolizzare un evento…Insomma, si viaggia per molti motivi.

Al di là degli infiniti significati simbolici e metaforici legati al tema del viaggio (che per la sottoscritta  è quasi un’ossessione, da sempre), andare in un paese straniero è in ogni  caso un’esperienza che misura i nostri limiti e le nostre risorse, mettendoci in contatto con ciò che è ignoto, che esce fuori dallo spazio da noi  conosciuto. Conoscere qualcosa ci dà familiarità, sicurezza.  Non a caso l’espressione “confort zone” indica quella zona in cui ci muoviamo con agio, ma che troppo spesso diventa una prigione impedendoci di osare uno sconfinamento verso territori diversi, più ampi. Lo sconosciuto spaventa. Abbiamo una mente “pantofolaia”, che per assicurarsi la sopravvivenza dell’ego ( e delle sue credenze) tende a ripetere sempre sé stessa. Ecco che invece il viaggio propone geografie diverse, esterne ma anche interne. A patto che si decida in che modo viaggiare.

Il viaggio in solitaria è il modo migliore per conoscere una terra straniera, specchio e riflesso della terra che ci abita dentro, densa di zone vergini, sconosciute a noi stessi.

I grandi viaggiatori sono sempre stati soli. Sempre. Perché viaggiare da soli permette un incontro diverso con l’altro da sé, e permette di contare solo su noi stessi, rinforzando, modificando, sottolineando, sottraendo. Usciamo dai nostri confini, dalle situazioni che ci offrono sicurezza e riparo. Solo il fatto di usare un’altra lingua implica modificare un atteggiamento mentale. Chi parla spesso una lingua straniera conosce bene questa sorta di “doppio” che vive dentro, e che fa sentire diversi ogni volta che si accede all’altra lingua. La lingua madre e la lingua straniera vivono all’interno di noi, ognuna producendo risultati diversi, e  non solo nel modo di parlare. Il pensiero stesso si trasforma,  quasi a suggerire diversi percorsi neurali a cui si accede solo attraverso un altro alfabeto, che non è più solo alfabeto linguistico ma diventa quasi ontologico. In fondo, il  suono della lingua somiglia al suono di un’anima. Lo rappresenta.

Ma se non partiamo da soli si vive un’esperienza completamente diversa. Portarsi dietro il partner, o gli amici, è come mettere in valigia un pezzo di casa.

E ci precludiamo un contatto più diretto con un paese straniero e la sua cultura.

E poi ci sono i  gruppi turistici, i più diffusi, soprattutto nel nostro paese. Quelli che, appunto, “visitano”.  Negli anni ho incontrato moltissimi viaggiatori solitari, ma raramente si trattava di  italiani.

Gli italiani, di solito, preferiscono viaggiare in squadra, in gruppo.

Ma, come dicevo,  il viaggio in gruppo è quello che più di tutti sorreggere l’idea del “visitare un paese”.  Ẻ proprio questo il punto. Un paese non dovrebbe essere visitato. Un paese dovrebbe essere vissuto. Il gruppo crea invece una dimensione estranea alla realtà che  – appunto – visita. Ed ecco allora che il viaggio diventa un safari culturale, gastronomico, antropologico….L’esterno viene osservato mantenendo una distanza invisibile, una sorta di soglia tra visitatore e visitato.

Emblema è la bandierina della guida capofila che trasporta il “gregge – turista” lungo il pellegrinaggio prestabilito. In questo modo si perde molto, moltissimo.

Viviamo in un mondo  invaso dall’ossessione delle foto scattate con il cellulare, in cui interrompiamo l’esperienza della realtà per fotografarla, inserendo un filtro (non solo letteralmente) fra noi e quell’esperienza. Ecco, in un certo senso il turista che viaggia in gruppo mette un filtro, crea una barriera perché si sposta insieme agli altri seguendo l’itinerario confezionato.

Non ho mai amato viaggiare così. A volte è stato necessario, ma solo per brevi tragitti.

La cosa migliore, per vivere senza visitare, è quella di perdersi. Perdersi irrimediabilmente. Mollare cartine, mappe, guide turistiche di carta e di carne, e avventurarsi nei luoghi, fra la gente.

Perdendo, si trova.

Quando viaggio osservo i gruppi davanti a una chiesa, o a un monumento. Guardano, ascoltano, proseguono in fila con la diligenza di uno scolaro. Seguono percorsi già preparati, di solito ripetitivi (le guide fanno soste studiate negli stessi hotel, ristoranti, negozi con cui hanno rapporti commerciali per un mutuo profitto). Non metto in dubbio la qualità, o la serietà del loro lavoro.

Il problema è alla base. Sta nell’approccio, nel metodo. C’è chi desidera una vacanza in cui decide di vedere un paese attraverso gli occhi della guida e del pacchetto confezionato, ma  c’è anche chi quel paese, invece,  lo vuole vivere.

E allora bisogna tuffarsi, e nuotare. O, meglio, camminare. Nulla come il girare a piedi ci mette in contatto con i lughi che attraversiamo.

Ci sono rischi? Sì. Pericoli? Dipende. Quando si è soli si è sempre più esposti, come  sa bene il predatore che separa il più debole per poterlo poi assalire e sbranare.

Ma non si è esposti solo al rischio. Si viene esposti anche a tutta la meraviglia e la profondità di un contatto immediato ( e non mediato).

L’espressione  visitare un paese trattiene la sensazione di una distanza tra l’osservatore e l’osservato, mentre vivere un paese suggerisce il contatto, la vicinanza che sconfigge nomi e geografie.

Un paese lo attraversi. Lo vivi. Lo ami. O magari lo odi. Ma non ti comporti da inquilino, proprio come nei bellissimi versi di Hikmet nella sua poesia dedicata al figlio  Mehmet.

Ti ci devi sporcare le mani, con un paese. Devi procedere a tentoni usando lingue diverse da quella a cui sei abituato, magari usando quei gesti universali riconosciuti da tutti. Devi finire nel ristorante sbagliato, devi arrivare in un quartiere  e poi scoprire che non era quello che stavi cercando, devi prendere un caffè da solo per osservare i volti dei passanti., devi sorridere allo sconosciuto che ti mostra la giusta via.

Insomma, in un paese straniero devi fare di tutto, tranne visitarlo.

Solo così potrai coglierne l’anima. Perché l’anima più profonda di una terra si rivela solo allo straniero che ha il coraggio di avventurarsi in un mondo ignoto, spogliandosi di abitudini e sicurezze. L’altra anima, quella “da cartolina”, è piuttosto una  personalità da mostrare alla massa di gruppi accalcati sulle orme dei loro pastori. Sorrisi, selfie, tappe obbligate nei luoghi di culto e nei ristoranti più trendy segnalati nelle guide di  Lonely Planet (o nei terribili video degli influencer che su Instagram postano foto e video che, tristemente,  si somigliano tutti).

Ricordo ancora quel piccolo ristorante arrampicato in uno dei vicoli infiniti di Lisbona: nessun turista, solo lisboeti immersi fra birre e chiacchiere in una stanzetta piena di vetrine da cui mi fissavano gli oggetti più strani: gatti di porcellana, bamboline, bandiere. E lui, il “cuoco”, alle prese con un cucinino sfuggito alla rottamazione post bellica e tuttavia capace, con quel suo fornello disastrato, di dar vita a meravigliosi panini di carne (non mangio più la carne ma quando viaggio, a volte, mi arrendo alla voglia di  capire veramente una cultura – la cultura passa anche attraverso il palato – o mi rassegno comunque alla mancanza di scelta). Mi ci aveva portato  Joao, un ragazzo  incontrato “ per caso”, girovagando per la città.

Di ogni viaggio conservo sorrisi, ricordi, amicizie che il tempo non ha sbiadito. Gli abitanti del posto sono sempre ben disposti verso il viaggiatore aperto, curioso. Chi viaggia solo ha il privilegio di incontrare molte più persone, e in modo spontaneo.

Tutto accade senza programmazione. Nessuno decide per il viaggiatore, nessuno programma la lista delle cose da fare, e da vedere. Ed è una delle meraviglie del vero viaggio. Avere il tempo per non fare nulla, o per fare molto, per sedersi due ore in un caffè ad ascoltare un musicista di strada, per evitare le file e cambiare idea…

Ogni terra accoglie, respinge, si camuffa, si maschera o si disvela. L’incontro con un paese straniero è come un incontro d’amore: si danza insieme, insieme si cammina per un tratto, e poi ci si lascia.

Ma per quel tratto si è davvero condiviso qualcosa di autentico. Che ci si porta dietro per sempre.

Non è l’esperienza che conta, ma la sua qualità.

Ẻ questa la differenza fra il  turista e il viaggiatore.

Il turista visita, il viaggiatore vive.