Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Tabacco e legno bruciato

di Martina Controne

Sono stanca ma non riesco a dormire. Sarà perché sento il suo respiro diventare sempre più pesante, sarà perché il calore del suo corpo risveglia il mio che pare di ghiaccio, nonostante la temperatura della stanza segni ventitré gradi. Sarà perché è la prima volta che dormo con un uomo.

 

Ho avuto altre esperienze prima, ma si era trattato sempre di cose frugali, frettolose, impacciate. In alcuni casi persino formali: ci si spoglia per conto proprio, i vestiti si lasciano con cura ai piedi del letto, un momento d’imbarazzo durante il primo contatto e un altro alla fine, dopo aver posseduto il corpo dell’altro, quando ciascuno non vede l’ora di riappropriarsi del proprio di corpo ma si deve fingere che il sesso sia stato appagante e significativo, e quindi a entrambi sembra buona educazione scambiarsi qualche gesto d’affetto, alias baci frettolosi e carezze meccaniche. Poi correre ognuno nel bagno di casa propria a cancellare le tracce di quella violazione consentita, con la spugna che graffia la pelle e il sapone a cancellarne l’odore.

Cerco di spostare con delicatezza le sue gambe che sono avviluppate alle mie, ma lui non molla la presa e le rimette sopra di me. Cambio tattica e abbandono la delicatezza, scivolo verso la parte del letto vuota e fredda. Sento di appartenere a questa parte di letto molto di più di quanto non appartenga all’altra, quella in cui dorme. Nel frattempo, il suo braccio fa capolino dalle lenzuola in cerca della mia di mano. Lo lascio tentare per qualche secondo fino a quando non mi decido ad aiutarlo e intreccio le mie dita tra le sue, poi mi giro e gli do le spalle. Questo è uno di quei momenti in cui la realtà di essere fatta di carne mi pesa di più.

Tante notti ho desiderato di svegliarmi l’indomani mattina, di toccarmi, e di accorgermi di non avere più un corpo. Non è proprio che non volessi averne uno, non volevo avere più il mio di corpo, quel corpo che era stato il tempio e il custode di tanti piaceri: il cioccolato alla gianduia che si scioglie sul palato, le tagliatelle al ragù, la pizza in compagnia degli amici e in ogni altra occasione si presenti.

Quindi se proprio non era possibile smettere di averlo, ne desideravo uno che fosse usa e getta, oppure uno che ti dessero in prestito al mattino da dover restituire la sera, durata massima ventiquattrore.

Ma tutte queste cose lui non le sa, così con la mano libera inizia ad accarezzarmi le cosce, prima su e giù e poi con movimenti circolari. Non le sa, eppure il suo tocco è tenero, gentile, profondo, come se volesse penetrare nella mia carne, scavare sottopelle, tra i nervi, i vasi sanguigni, le ossa, per risalire alle origini, prelevare la scheda madre, azzerarla, restituirmela e vivere per sempre felici e contenti.

Le sue dita si mostrano esperte, disegnano degli archi in maniera sempre più insistente tra le mie cosce. Inizio a sentire un tepore espandersi lì in mezzo. Per lui sembra che non ci sia alcuna

 

differenza tra desiderare me e desiderare il mio corpo, l’ho capito mentre facevamo l’amore. Io invece su questa distinzione ho distrutto e ricostruito la mia vita tante volte. Sussulto leggermente e sposto la sua mano sul mio fianco.

Eccolo un altro motivo per cui odio il mio corpo, ha una memoria infallibile, non sa cosa siano l’oblio e l’incoscienza, nemmeno quel tanto che basta per consentirmi di rimanere sdraiata e godere.

Penso che a lui risulti facile desiderarmi adesso. Non credo proprio che desidererebbe ancora la mia vicinanza se sapesse che quelle stesse cosce che sta accarezzando sono passate da stare strette in una taglia quarantadue a navigare dentro una trentaquattro in poco più di un mese. Mese in cui trascorrevo gran parte delle mie giornate chiusa in bagno e consumavo lì persino l’unico pasto giornaliero che mi concedevo: una vaschetta di yogurt. Mi mettevo davanti allo specchio e osservavo il mio corpo cambiare ad ogni cucchiaiata che era rapida, precisa, famelica, e mentre vuotavo la confezione lo osservavo diventare sempre più largo, fino a che non riempiva tutta la stanza. Poi iniziavo a toccarmi le braccia tirando indietro la pelle in eccesso per nasconderla, ma dato che non c’era nulla da nascondere continuavo a stringere sempre più forte. Non ero soddisfatta fino a quando non sentivo le ossa premere forte contro le dita e liberarsi finalmente dallo strato di carne rimasto. Questo per me significava raggiungere l’apice del piacere.

Godevo quando, toccandomi, sentivo le costole che inghiottivano la pancia, quando mi grattavo la schiena ridotta ad un paio di scapole

 

appuntite, godevo quando non riuscivo a stare seduta per più di qualche minuto perché la colonna vertebrale faceva male al contatto con qualsiasi superficie.

Dopo aver scoperto questa parte primitiva, quasi animalesca del mio corpo, ho capito che non sarei sopravvissuta se non l’avessi addomesticato con due semplici regole. Regola uno, potevo gustarmi del buon cibo ma sempre senza superare il confine prestabilito per non correre il rischio di abbuffarmi e dover rimediare con estenuanti digiuni in un secondo momento, regola numero due non potevo guardarmi allo specchio e non piacermi, qualora fosse accaduto avrei perso il controllo e tutta quella ricerca di un equilibrio tra eccesso e privazione sarebbe stata inutile.

Adesso, stesa a letto con lui di fianco, penso a tutte queste cose e sento che sono capace di godere diversamente. Mi giro lentamente per vedere se dorme. Ha ancora gli occhi chiusi e ora che sono più vicino sento quel suo profumo che mi piace tanto, con forti note di tabacco e legno bruciato. Quando ero arrivata a casa sua il pomeriggio mi aveva sorpresa ad annusare una sua maglietta che aveva lasciato sul divano, e mi aveva detto che potevo prenderli entrambi, la maglietta e il profumo, ma io avevo risposto di no, che sulla sua pelle era più buono.

Appoggio la testa sul cuscino di fianco alla sua e chiudo gli occhi.

’è un corpo nudo che desidera la mia vicinanza anche mentre

 

dorme. Nel frattempo, il suo braccio fa capolino dalle lenzuola in cerca della mia di mano. Lo lascio tentare per qualche secondo fino a quando non mi decido ad aiutarlo e intreccio le mie dita tra le sue, poi mi giro e gli do le spalle. Questo è uno di quei momenti in cui la realtà di essere fatta di carne mi pesa di più.

Tante notti ho desiderato di svegliarmi l’indomani mattina, di toccarmi, e di accorgermi di non avere più un corpo. Non è proprio che non volessi averne uno, non volevo avere più il mio di corpo, quel corpo che era stato il tempio e il custode di tanti piaceri: il cioccolato alla gianduia che si scioglie sul palato, le tagliatelle al ragù, la pizza in compagnia degli amici e in ogni altra occasione si presenti.

Quindi se proprio non era possibile smettere di averlo, ne desideravo uno che fosse usa e getta, oppure uno che ti dessero in prestito al mattino da dover restituire la sera, durata massima ventiquattrore.

Ma tutte queste cose lui non le sa, così con la mano libera inizia ad accarezzarmi le cosce, prima su e giù e poi con movimenti circolari. Non le sa, eppure il suo tocco è tenero, gentile, profondo, come se volesse penetrare nella mia carne, scavare sottopelle, tra i nervi, i vasi sanguigni, le ossa, per risalire alle origini, prelevare la scheda madre, azzerarla, restituirmela e vivere per sempre felici e contenti.

Le sue dita si mostrano esperte, disegnano degli archi in maniera sempre più insistente tra le mie cosce. Inizio a sentire un tepore espandersi lì in mezzo. Per lui sembra che non ci sia alcuna

 

differenza tra desiderare me e desiderare il mio corpo, l’ho capito mentre facevamo l’amore. Io invece su questa distinzione ho distrutto e ricostruito la mia vita tante volte. Sussulto leggermente e sposto la sua mano sul mio fianco.

Eccolo un altro motivo per cui odio il mio corpo, ha una memoria infallibile, non sa cosa siano l’oblio e l’incoscienza, nemmeno quel tanto che basta per consentirmi di rimanere sdraiata e godere.

Penso che a lui risulti facile desiderarmi adesso. Non credo proprio che desidererebbe ancora la mia vicinanza se sapesse che quelle stesse cosce che sta accarezzando sono passate da stare strette in una taglia quarantadue a navigare dentro una trentaquattro in poco più di un mese. Mese in cui trascorrevo gran parte delle mie giornate chiusa in bagno e consumavo lì persino l’unico pasto giornaliero che mi concedevo: una vaschetta di yogurt. Mi mettevo davanti allo specchio e osservavo il mio corpo cambiare ad ogni cucchiaiata che era rapida, precisa, famelica, e mentre vuotavo la confezione lo osservavo diventare sempre più largo, fino a che non riempiva tutta la stanza. Poi iniziavo a toccarmi le braccia tirando indietro la pelle in eccesso per nasconderla, ma dato che non c’era nulla da nascondere continuavo a stringere sempre più forte. Non ero soddisfatta fino a quando non sentivo le ossa premere forte contro le dita e liberarsi finalmente dallo strato di carne rimasto. Questo per me significava raggiungere l’apice del piacere.

Godevo quando, toccandomi, sentivo le costole che inghiottivano la pancia, quando mi grattavo la schiena ridotta ad un paio di scapole

 

appuntite, godevo quando non riuscivo a stare seduta per più di qualche minuto perché la colonna vertebrale faceva male al contatto con qualsiasi superficie.

Dopo aver scoperto questa parte primitiva, quasi animalesca del mio corpo, ho capito che non sarei sopravvissuta se non l’avessi addomesticato con due semplici regole. Regola uno, potevo gustarmi del buon cibo ma sempre senza superare il confine prestabilito per non correre il rischio di abbuffarmi e dover rimediare con estenuanti digiuni in un secondo momento, regola numero due non potevo guardarmi allo specchio e non piacermi, qualora fosse accaduto avrei perso il controllo e tutta quella ricerca di un equilibrio tra eccesso e privazione sarebbe stata inutile.

Adesso, stesa a letto con lui di fianco, penso a tutte queste cose e sento che sono capace di godere diversamente. Mi giro lentamente per vedere se dorme. Ha ancora gli occhi chiusi e ora che sono più vicino sento quel suo profumo che mi piace tanto, con forti note di tabacco e legno bruciato. Quando ero arrivata a casa sua il pomeriggio mi aveva sorpresa ad annusare una sua maglietta che aveva lasciato sul divano, e mi aveva detto che potevo prenderli entrambi, la maglietta e il profumo, ma io avevo risposto di no, che sulla sua pelle era più buono.

Appoggio la testa sul cuscino di fianco alla sua e chiudo gli occhi.