Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012
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Orgoglio e vanità

di Francesca Girardi

Viviamo in  un’epoca funestata dal narcisismo selfie-riferito e dai social. Ma  bisogna prendere le distanze dai ogni forma di compiacimento? Non sempre. Almeno così pensava Benjamin Franklin…

C’è un aspetto che viene spesso descritto come qualcosa da evitare, da non fare perché non sta bene. Spesso è un vero e proprio difetto, un atteggiamento da guardare in modo sbieco, quasi a proteggersi.

La vanità. Essere vanitoso, lo sappiamo, non gode della fama di rappresentare un pregio ambito di una persona.  Pensiamo al cartone animato degli anni ’80, I Puffi; il Puffo vanitoso era sempre lì, con il suo specchio a mirarsi e rimirarsi. A tratti appariva anche buffo, ma certo è che non vedeva nessun’altro che lui. In parte può far sorridere, perché la vanità era dipinta alla stregua di mettersi su di un piedistallo, un prestare attenzione esclusivamente al proprio aspetto, al proprio sé.

Tuttavia, che male c’è a dare attenzione a sé stessi? È veramente così sbagliato dedicarsi qualche attimo, rivolgendosi cura e sinceri complimenti? Il rischio è di avvicinarsi in maniera molto marcata al narcisismo, qualcuno penserà, e in parte è vero. Credo che la vanità diventi un difetto nel momento in cui porta l’attenzione al sé, lasciando perdere tutto il resto, dimenticandosi dell’altro. Certamente è un atteggiamento che limita, che porta isolamento. Tutti concordi, qui, che dalla vanità bisogna scappare.

Bene. Un interessante punto di vista su questa peculiarità viene da un’autobiografia, quella di Benjamin Franklin, datata 1868. Innanzitutto, è un invito a ripercorrere le tappe della propria vita al fine di lasciare una testimonianza, una sorta di libretto di istruzioni in cui, chi vuole e se lo vuole, possa trovare qualche modalità d’uso adatta alla propria esistenza; è una caratteristica propria della scrittura diaristica, ma non è questo l’argomento di discussione. Benjamin Franklin parla della vanità in un modo che non possiamo, paradossalmente, definire vanitoso. In particolare, la tratta come qualità dell’individuo che riconosce di esser riuscito a costruire un qualcosa di importante. Ed è un pensiero che si avvicina all’autostima, altra peculiarità che purtroppo si tende a smarrire per delegare agli altri la responsabilità di rivolgere a noi la stima.

Si legge nelle pagine del diario:

“… E da ultimo (tanto vale che lo confessi perché il contrario non ingannerebbe nessuno) forse m’accadrà di appagare non poco la mia personale vanità. Effettivamente, di rado ho letto o sentito pronunciare la locuzione introduttiva ‘Con umiltà posso dire, ecc.’ senza che una qualche vanteria subito le si accompagnasse. I più disapprovano la vanità negli altri a prescindere da quanta essi stessi ne dimostrano; con essa invece io scendo volentieri a patti tutte le volte che mi capita, essendo persuaso che spesso sia prodiga di benefici per chi la possiede e per quelli che a lui sono più vicini. Tanto che, in parecchie circostanze, il

dover ringraziare Dio per la nostra vanità fra gli altri doni della vita non sarebbe pura follia.

 

E sempre a proposito di ringraziamenti a Dio, voglio in tutta umiltà riconoscere che la felicità di cui ho goduto la debbo alla sua benigna Provvidenza, la quale mi ha fatto scoprire i mezzi di cui mi sono servito e ne ha garantito l’ottima riuscita. Questa mia convinzione mi induce a sperare, sebbene io non debba averne la presunzione, che la stessa amorevolezza continui ancora a manifestarsi consolidando quella felicità…”.

Franklin scende volentieri a patti con la vanità, e i patti non sono altro che un equilibrio tra il riconoscere il proprio lavoro, la propria capacità e riconoscere anche quanto di altro abbia permesso la propria fortuna. Per lui è la Provvidenza, la coautrice del suo successo, e non c’è nulla di male nel dirsi, parafrasando il pensiero del noto personaggio americano, quanto si è stati bravi.

Oggi c’è una vanità non molto chiara, una vanità che rimane superficiale, restando a galla su un livello mediocre per cui: vanità uguale perfezione assoluta. Non è di questo che si tratta, non è dell’essere bravo e, quindi, superiore all’altro. No, è una vanità che racchiude al suo interno l’umiltà, il suo contrario. L’umiltà di non essere eccessivamente modesti nel dire “No, non me lo merito” e, allo stesso tempo, riconoscere a sé stessi un valore che le circostanze hanno aiutato a far emergere.

Un pensiero profondo, che porta a rivedere i canoni dei comportamenti e che invita a stimolare la propria autostima affinché le proprie azioni portino ognuno di noi a vantarsi di sé stessi non per un mero fine di vana gloria, e un frivolo piacimento, bensì per il proprio contributo alla società. Agire consapevolmente, riconoscere il proprio valore così come riconoscere la fortuna, la Provvidenza o qualsiasi altro nome si voglia dare a quella parte che proviene da chi ci circonda.

Perché la società, in fin dei conti, non sarebbe migliore se ci fossero vanitosi con umiltà?