Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Figli del Sessantotto

di Aurora Semente

Li guardavo, i miei. Ex sessantottini infilati nelle pantofole di una ritrovata borghesia dopo la mai salpeggiata  nave che doveva arrivare in India. Fino a Goa, fino a Katmandu, fino ai confini dell’occidente.

Dai volantini all’università mia madre era passata alla carta igienica con cui puliva il culo di noi bambine. A mia sorella doveva pulire anche la bocca, perché si mangiava la cacca che Plosch, il nostro cane, disseminava in tutto il giardino. Lo seguiva traballando sulle sue gambette, raccoglieva quelle briciole di Pollicino  che segnavano il passaggio di Plosch infilandosele dritte in bocca.

I sogni di ribellione di mamma si schiantarono sulle mura di quel giardino.O forse mia sorella si ingoiò anche quelli. E me ne fece assagguiare un pezzettino.

La vita di mamma assunse il perimetro stretto della casa in fondo al vialetto, quella in cui trascorse per anni le sere davanti alla televisione dopo averci concesso il Carosello, mentre papà al bar stracciava gli avversari di poker.

“Un poker di buono, tuo marito”. Le disse una volta una cugina.

Papà non era mai stato realmente un ribelle. Soltanto un dandy che bighellonava trasognato per la città, in attesa di evadere la minaccia di avvocatura prospettata dai suoi, pronto a tutto pur di non mettere la camicia di forza di un lavoro “borghese”, malgrado la sua rivoluzione fu solo e sempre domestica, scandita dalle mutande buttate nella cesta dei panni sporchi dalla cameriera, raccolte da terra mentre gli portava il caffè.

Era lui, a sognare la nave per l’India. Invece di una nave, alla fine costruì un’azienda in Italia. Diventò il self made man di cui parlano sempre nel marketing. Dopo un periodo molle di sbando, decise di voler dimostrare al mondo che poteva emergere, che poteva diventare qualcuno.

Mamma a casa, lui al lavoro. Lei immacolata, pacata come una Madonna, tutta presa dai figli per dimenticare un marito dongiovanni che passava dall’ufficio a un altro letto.

Noi crescevamo al riparo dell’ombra dei soldi che papà andava facendo, mattone dopo mattone, cliente dopo cliente, milione dopo milione. Le fratture della nostra famiglia nevrotica venivano ingessate con le banconote.

Ci tocfcò la sorte di tanti figli dei figli del Sessantotto: la libertà venne barattata con la comodità.

Il nucleo della famiglia esplose e ci divise per sempre da quell’unità, scavando grotte e cunicoli nella nostra dimensione affettiva, quella che io e mia sorella avremmo trascinato disperatamente da adulte.

Dentro di me si aggirava “la strega”, la donna ctonia dai capelli scarmigliati e il ventre gonfio, sporco di fango. Quella che nuda inseguiva le mie fughe notturne in cui i sogni aprivano le frontiere dell’incubo.

Più tardi, guardando indietro, mi resi conto che nei desideri sfumati dei miei genitori si andava assottigliando la promessa di felicità per il nostro futuro.

Il Sessantotto fu furore estinto nell’attimo della, revisione, fu gioventù incapace di portare avanti la radicalità di una posizione estrema, priva di compromessi, che bandiva la mediazione.

Che resta? Qualche fotografia in bianco e nero, un manifesto, un mozzicone di sigaretta.