di Edoardo Brunetti
Gentile lettore,
sono lieto di estendere un invito a lei e ai suoi cari per la finale di Champions League della stagione calcistica 2023/2024. L’evento è previsto per le ore 21 del 1° giugno allo stadio Wembley di Londra e vedrà affrontarsi il Borussia Dortmund del giovanissimo Edin Terzić con il classico – o, per meglio dire, noioso, ridondante, avido; a lei la scelta – Real Madrid del pluripremiato Carlo Ancelotti.
È consigliato un outfit all’insegna del giallonero, specialmente se la allettano concetti come il romanticismo, la giustizia, la passione per ciò che si fa e la poesia. Se non le interessa niente di tutto ciò, beh… che tifi pure Real.
Sinceramente,
qualsiasi persona dotata di cuore.
Inviti goliardici a parte, gli unici esseri umani sulla faccia della Terra che sono esentati dal simpatizzare – se non dal tifare sfegatatamente – il Borussia Dortmund sono i madridisti stessi.
Tutti gli altri devono sincronizzare i battiti del loro cuore con quelli del popolo giallonero.
E non soltanto per la classica e abusata favola dell’underdog che sconfigge il favorito, del Davide che uccide Golia, o del Steven Bradbury che annichilisce qualsiasi teoria sull’importanza dell’allenamento costante o sulla cecità della fortuna.
E già questo, in realtà, sarebbe abbastanza, perché la storia dello sfigato-che-non-era-benvoluto-nemmeno-dalla-madre, seppur abusata, è la storia sportiva più emozionante che ci possa essere.
Questo caso è speciale. Perché c’è un chiaro personaggio, lucente come la sua maglietta, anche se sfortunato come pochi, che si staglia all’orizzonte e diventa il protagonista assoluto di questa storia.
Si chiama Marco Reus e tra la “o” alla fine del nome e la “R” all’inizio del cognome qualche divinità calcistica piuttosto antipatica deve aver scritto, a caratteri infinitesimali e con l’inchiostro invisibile, la parola sfortuna. L’anti-Steven Bradbury, se vogliamo.
L’Ultimo SamuReus, l’ultima bandiera. Non un uomo d’affari, ma solo un uomo. Una razza vecchia nel mondo del calcio, parafrasando il leggendario Armonica di C’era una volta il West.
In uno sport che vede sempre più nel vil-denaro-a-tutti-i-costi la sua stella polare, un ultimo giocatore, sulla scia dei grandi del passato, ha deciso di farsi guidare anche – ma non solo, perché è sacrosanto volere un assegno con molti zeri – dalla passione e dalla riconoscenza.
Ed è stato ripagato con una serie di sfortune tragiche – sportivamente parlando – che per poco non sfociano nel fantozziano.
Sì, perché sicuramente non si può definire fortunato un calciatore che perde la finale di Champions all’89° contro i rivali di sempre, il Bayern Monaco. Non si può definire fortunato un calciatore che l’anno successivo, a un passo dal mondiale, si infortuna e non viene quindi inserito nella rosa che vincerà poi quello stesso torneo, quasi dominandolo. E non si può definire fortunato un calciatore, che dopo dieci anni di appartenenza allo stesso club, si vede soffiare il campionato all’ultima giornata a causa di un rocambolesco 2-2 in casa contro il non-inarrestabile Mainz. Campionato che mancava da undici anni, ovvero dall’anno prima che lui arrivasse. Crudeli numeri, numeri crudeli.
Ha visto un’infinità di talenti – Lewandowski, Bellingham, Dembélé e Gündoğan tra gli altri – usare la sua squadra come trampolino di lancio verso il calcio che conta, e nonostante tutto è sempre rimasto lì. Il calciatore con zero haters, la massima incarnazione del lato poetico della sconfitta, ha annunciato l’addio a questo sport che tanto lo ha maltrattato, e si ritrova ora con l’occasione, alla sua ultima partita, di vincere il trofeo più importante, giocandoselo contro il club più forte.
Anche se l’avversario non vanta poi questo grande palmarès: quattordici Champions League, e delle ultime otto finali ne ha vinte soltanto otto.
Ma, come nelle grandi storie, più forte è il nemico e più epica sarà l’impresa. Sperando che, almeno stavolta, la fortuna lasci in pace il nostro beniamino e gli permetta di illuminare gli schermi di tutto il mondo con il suo talento cristallino.
Ribadisco quindi il mio invito a non cedere alle lussuose tentazioni del lato oscuro il primo giorno di giugno, ma di gioire, imbestialirsi e disperarsi assieme all’indomabile muro giallo. Mettersi una camiseta di quel tenebroso blanco significherà affermare la propria avversione al romanticismo.
Anzi, aspettate, ho un’idea.
Cara sig.ra Fortuna, sarei lieto di estendere l’invito del 1° giugno anche a lei. Si ricorda della famosa pallina da tennis che colpisce il nastro della rete e poi cade dalla parte giusta? Esatto, quella del film di Woody Allen! E se a tirare, questa volta, fosse un certo Marco Reus?
Sinceramente,
qualsiasi persona dotata di cuore.