Il carcere è spesso luogo di suicidi, abusi, violenze. Ma c’è anche si impegna nel denunciare la situazione e nel miglioramento delle condizioni dei detenuti. Caterina Acquafredda, direttore di diversi istituti penitenziari, ci racconta questa realtà di cui si parla troppo poco…
di Lizia Dagostino
Con la dottoressa Caterina Acquafredda, direttore in diversi istituti penitenziari, ci siamo guardate e riconosciute, in un convegno in cui ero invitata come psicologa, a causa dei suicidi, sempre più numerosi, nella popolazione carceraria.
Sono trascorsi vent’anni di studi, di formazione progettata ed erogata e, ancora, cerchiamo occasioni per ritrovarci e ragionare, nel suo studio o nel mio. Negli ultimi tempi è forte il sentimento di frustrazione, dinanzi alle violenze denunciate dai detenuti e dalle loro famiglie.
Caterina Acquafredda è stata direttore nella casa di reclusione di Padova per circa sei anni; in seguito negli istituti di Altamura, di Foggia, di Lucera, di San Severo. Presso il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria ha diretto il personale della Regione Puglia per circa cinque anni. Infine, è stata direttore nella casa circondariale di Trani e di Matera.
Nonostante l’impegno di gran parte della dirigenza e della Polizia Penitenziaria, l’Italia è richiamata dalla Corte europea dei diritti umani per maltrattamenti ai detenuti. Il 9 marzo 2020, mentre la vita mondiale era sospesa a causa del Covid, nel carcere di Modena sono morti tredici detenuti in istituto, durante il delirio della rivolta e durante i trasferimenti notturni in altre carceri. Solo a Santa Maria Capua Vetere e nella caserma di Verona i video hanno inchiodato gli uomini in divisa durante i pestaggi. Ordini sbagliati o male eseguiti, procedure alterate, disorganizzazione, angoscia di morte non governata? Le persone affidate allo Stato, dentro anche per piccole condanne, muoiono. Si può evitare la deriva violenta?
Gli eventi drammatici, una pandemia, un terremoto, un incendio devastante, vengono vissuti dai detenuti emotivamente in modo amplificato e drammatico. Chiusi a chiave nella stanza di un istituto penitenziario, senza alcuna possibilità di uscita, si sentono intrappolati in un destino inesorabile. La pandemia ha determinato l’interruzione dei colloqui con i familiari, la sospensione di qualunque attività trattamentale, le attività scolastiche e sportive, il teatro, il lavoro.
Ricordo lo stress dovuto alla mancanza di mascherine protettive, quando erano una chimera anche per le persone libere. Parlo di stress per lo stesso detenuto, dovendo convivere con gli operatori, spesso resistenti ad indossare le misure protettive. Dinanzi a questa emergenza e all’isolamento che ne è derivato eravamo tutti impreparati, anche i medici. Il panico si è trasformato in atti di ribellione e di rivolta. Comunicando con i detenuti, gli operatori non sempre inviavano messaggi coerenti e credibili, non tanto per cattiva volontà, ma perché non sapevano nulla del nuovo virus.
Fuori da questa emergenza, la quotidianità, come ben dici Lizia, fa registrare comunque situazioni critiche, aggressioni, violenze di ogni tipo verso gli operatori e i compagni di detenzione, atti autolesivi. Le cause sono molteplici: lo stato psicologico e psichiatrico dell’utenza, le incomprensioni tra il personale e i detenuti. Credo sia tutto riconducibile alla impreparazione umana e, talvolta, professionale degli operatori stessi, mancando un adeguato governo delle emozioni. Per evitare una sempre più dilagante deriva violenta, è indispensabile investire nella formazione, soprattutto psicologica, degli operatori, organizzando percorsi formativi continuativi che sono, per altro, obbligatori, secondo i vigenti contratti collettivi nazionali di categoria. Penso a percorsi formativi che preparino a una relazione umana sana poiché, in ogni situazione problematica, alla base delle reazioni violente, vi è spesso un approccio mentale e culturale sbagliato. Ovviamente i percorsi formativi devono coinvolgere tutti: i capi, il direttore e il comandante di reparto, la fascia intermedia, nella catena di comando, fino al personale amministrativo della polizia penitenziaria
Dal 1996, in ogni cella, c’è la televisione e c’è la possibilità, attraverso le associazioni e i volontari, di studiare, di socializzare, di trasformare la prospettiva di vita: nessun delinquente ha l’avvenire segnato e sicuro. Come è possibile che i detenuti si trasformino in allievi di malavita, teste calde e spaventate che, vivendo fuori dalla legalità, vanno incontro a suicidi, regolamenti di conti, malattie mortali?
Dal 2013 la sentenza Torreggiani prevede una metratura obbligatoria di 4 m2 per ciascun detenuto, la televisione e la possibilità, attraverso le associazioni e i volontari, di studiare e di socializzare. In queste dinamiche c’è sicuramente in gioco la responsabilità del detenuto, libero di scegliere tra il male e il bene, fra la possibile rinascita e l’abbandono. Registriamo, anche, la responsabilità umana e professionale dell’operatore, appartenente al comparto ministeri, l’educatore, lo psicologo, il medico come operatore sanitario, e del poliziotto penitenziario. La libertà di scelta del detenuto è, però, compromessa dalle condizioni di vita non facili all’interno dell’istituto penitenziario. L’eccessiva promiscuità dovuta alla convivenza coatta, visto che nessuno sceglie il compagno di stanza; la vita in stanze sovraffollate in cui la capienza per tre, ad esempio, diventa per sei/sette persone. Di conseguenza, i servizi igienici sono insufficienti, l’assistenza sanitaria è molto limitata; si aspettano giorni e giorni per ricevere una terapia per il mal di denti; figurarsi per le cure di patologie più serie. Ripeto, questa situazione è la diretta conseguenza del sovraffollamento oramai divenuto insostenibile che determina l’insufficienza dei servizi, oltre che la convivenza tra persone ormai insopportabile. Ho conosciuto tantissimi operatori di differente professionalità e di grande valore umano che con buona volontà e con spirito di sacrificio, in presenza di poche e inadeguate risorse, hanno fornito concrete risposte e validi aiuti alle persone detenute. In questo lavoro non bisogna mai perdere di vista la cura della persona e alla persona, collega o detenuto: è difficile, anche a causa dell’eccessiva e dilagante burocratizzazione.
Per un periodo si era progettato e attuato il carcere aperto che prevedeva le celle chiuse solo la sera e i detenuti liberi di circolare nel raggio; dal 18 luglio 2022, invece, tutto è stato modificato.
Il regime cosiddetto aperto prevede, a seconda delle situazioni, la possibilità del detenuto di poter vivere la detenzione fuori dalla sua stanza da un minimo di 8 ore a un massimo di 10. In alcuni casi anche oltre, come nelle sezioni o negli istituti a sezione attenuata, ospitanti i detenuti di media sicurezza, con una pena detentiva da scontare inferiore a 5 anni, oppure, le persone affette da dipendenze patologiche o, ancora, le detenute madri con prole. In questi casi, la vita del/lla detenuto/a viene svolta in regime aperto, cioè fuori dalla stanza. Il tempo deve essere organizzato in attività trattamentali scolastiche, sportive, professionali, lavorative e in attività dirette alla semplice socializzazione nei corridoi della sezione o in apposite salette ricreative in cui è possibile utilizzare i giochi da tavolo, assistere a cineforum. Il regime aperto è rivolto ai detenuti che hanno manifestato un comportamento corretto verso gli operatori e i compagni di detenzione e partecipativo verso le attività proposte. Per gli altri più problematici, i detenuti ritenuti responsabili di atti di sopraffazione verso gli altri oppure di atti irriguardosi nei confronti degli operatori, il regime aperto è precluso fino a quando la condotta non sarà educata, adeguata e rispettosa delle regole. Gli stessi conservano il diritto a frequentare le attività trattamentali, un diritto inviolabile, sancito dalla legge penitenziaria 354/75, già citata.
Registriamo un basso tasso di recidiva quando, per ogni detenuto, si facilita e si attua il reinserimento sociale e lavorativo. Bollate è il carcere italiano con spazi verdi per incontrare i familiari, con più possibilità lavorative, attraverso cooperative, imprenditori volenterosi: il modello può essere confermato e condiviso?
Il modello deve essere confermato e condiviso poiché è la giusta legittima risposta alla normativa: l’articolo 27 della Costituzione prevede che la pena sia tesa alla rieducazione del condannato, e che non consista in trattamenti contrari al senso di umanità. La rieducazione è attuata attraverso la partecipazione del detenuto alle attività trattamentali scolastiche, professionali, ricreative, culturali, teatrali, attività dirette a facilitare le relazioni familiari, i colloqui visivi e le telefonate secondo i principi e le modalità organizzative previsti dalle leggi 354 del ‘75 e il decreto legge 230 del 2000. In definitiva, attraverso tale coinvolgimento nelle attività del detenuto, si cerca di recuperare il senso dei valori positivi della vita, il confronto con la bellezza contrapposta al passato deviante. È necessario un contesto sensibile, accogliente, propositivo di tutta la cittadinanza verso il carcere ed è necessaria la volontà governativa di finanziare la legge Smuraglia, prevedendo le misure di defiscalizzazione e di facilitazione contributiva previdenziale a favore di imprenditori che intendono assumere le persone detenute.
Il carcere di Altamura è considerato un luogo protetto per i reclusi sexual offenders: è così? In che modo è differente nelle dinamiche relazionali?
L’istituto di Altamura che ho diretto per dieci anni, dal 2003 al 2013, è un istituto di piccole dimensioni che ospita 80 detenuti e una ventina di semiliberi. Nel 2009, in due giorni, fu cambiata la sua destinazione: furono trasferiti i detenuti cosiddetti sexual offenders, ossia condannati per reati a sfondo sessuale, consumati in danno di minori o di donne. L’impatto di tale cambiamento sugli operatori fu notevole, per la tipologia dei reati e per la percezione di incapacità e impreparazione. L’intesa con il comandante del reparto puntò alla organizzazione di percorsi formativi specifici: una grazia, oserei dire, fu l’incontro con te Lizia che, capendo immediatamente il fabbisogno umano e professionale del personale, rappresentasti una preziosa risorsa nella organizzazione e nella realizzazione dei diversi moduli formativi, coinvolgendo non solo il personale interno, i poliziotti penitenziari, gli educatori e i medici, ma anche gli operatori esterni, gli assistenti sociali operatori del Sert, del Sim. Furono organizzate diverse attività trattamentali a favore dei detenuti: il corso per panificatori, con rilascio di attestati professionali al pari del corso per giardiniere in serre, per la produzione del miele ed alcune di queste permangono tuttora. La condizione fondamentale per l’accesso ai corsi è la sottoscrizione di un vero e proprio patto trattamentale, un contratto con il magistrato di sorveglianza, la direzione del carcere e il detenuto impegnato a rispettare le regole dell’istituto, nonché l’astinenza alcolica. Per contenere la carenza cronica del personale di polizia penitenziaria è stata istituita, d’intesa con il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma, la cosiddetta vigilanza dinamica, ossia, un nuovo modello di vigilanza da remoto che non prevede più la figura dell’agente di sezione, ma una sala regia dove, appunto, da remoto, il singolo agente vigila su una o più sezioni attraverso le telecamere, coadiuvato da una pattuglia armata di due agenti che, in orari prestabiliti, si reca presso la suddetta sala regia. Ritengo che tale modello di istituto penitenziario rappresenti sicuramente un radicale cambiamento nelle tradizionali dinamiche relazionali di cui mi chiedevi.
È forte il legame fra la galera e la giustizia sociale. Il filosofo e sociologo Zygmunt Bauman parla del carcere come auberge des pauvres, albergo di poveri: dentro ci finiscono i poveri, gli sfigati, gli extracomunitari, i tossici, i malati psichiatrici. Il carcere, insomma, come la spazzatura sociale?
Sì, è vero, negli istituti penitenziari si ritrovano gli ultimi fra gli ultimi della scala sociale, il recidivo dei reati contro il patrimonio, chi ha trovato nel suo ambiente sociale l’unica forma di apprendimento culturale, la persona affetta da patologie e disturbi del comportamento, sbattuta in carcere perché mancano scritture specifiche per i detenuti psichiatrici, come per i tossicodipendenti, spesso portatori di doppia diagnosi, oppure gli extracomunitari senza dimora, senza lavoro, non integrati nel tessuto sociale e, talvolta, al servizio della malavita locale. In ogni caso, tutti i soggetti che non possono avere accesso a una difesa legale di elevato livello.
Sono preoccupata dalla piega giustizialista della società, dalla condanna come una vendetta, dalla politica securitaria ed espulsiva. Senza svalutare l’influenza della libertà di ogni essere umano di scegliere fra il bene e il male, l’Istituzione può essere pedagogica?
L’Istituzione, a qualunque livello e nella sua specifica sfera di funzione e competenza, deve, per legge, oltre che per opportunità, essere pedagogica. Ritengo doverosa una inversione di tendenza rispetto alla risposta giustizialista e securitaria data dai decreti di recente emanazione del governo, i cosiddetti decreti Rave, Cutro e Caivano: nel rispondere normativamente a gravi accadimenti avvenuti negli ultimi mesi, introducono nuove fattispecie di reato, spesso, duplicando quelle già esistenti ed introducendo altre pene detentive. Inoltre il decreto legge in materia di sicurezza. Intervenendo in materie come la sicurezza urbana, la tutela del personale delle forze di polizia, l’usura e l’ordinamento penitenziario, prevede importanti aumenti delle pene detentive nelle varie fattispecie penali. Questi provvedimenti legislativi, accompagnati dall’assenza di misure deflattive, quali l’amnistia o l’indulto, non faranno altro che aggravare il sovraffollamento carcerario, con tutte le relative disperanti ricadute sul personale e sui detenuti; esponendoci, tra l’altro, a rischio di nuove condanne da parte della Corte Europea dei diritti umani e, quindi, al pagamento di altre sanzioni nei confronti dei ricorrenti detenuti.
La violenza in carcere, le botte e la tortura sono un male incurabile? La violenza è strutturale, è insita nel sistema? Quali cambiamenti sono possibili nel Corpo di polizia penitenziaria?
La detenzione è di per sé violenta, per quanto sia una pena legittima e meritata. La sentenza di un giudice, per quanto legittima, è in sé stessa violenta, privando il soggetto della sua naturale libertà di movimento, limitando e condizionando l’autodeterminazione, condannandolo, di fatto, ad una convivenza coatta. È questo l’aspetto retributivo, ossia il risarcimento del danno commesso verso la società. La risposta dello Stato e dei suoi rappresentanti, però, non deve consistere in ulteriori violenze, in ulteriori maltrattamenti, minacce, oppure, in atteggiamenti d’indifferenza a problemi reali dei reclusi. La detenzione deve essere giusta, adeguata, umana: lo afferma la Costituzione. Le cronache quotidiane dimostrano però come i principi normativi ora richiamati non prevedano facile e scontata attuazione. La mia esperienza professionale dimostra che, per evitare lo scontro tra diverse miserie umane e culturali dei detenuti e del personale tutto, è fondamentale investire sulla formazione degli operatori, quella specialistica riguardante i vari aspetti della professione e quella personale e relazionale.
Ho notato, durante i percorsi formativi, che gli/le agenti di polizia penitenziaria non sono tutti/e ignoranti e violenti per paura e timidezza, e non sono troppo buoni/e ingenui/e: come è possibile riconoscere e risolvere il rischio burnout?
Quando ormai la persona è in burnout, versa in una situazione psicologica critica, sente rabbia di frustrazione, con ricadute sulla qualità della vita e della prestazione lavorativa, credo sia possibile prevedere un accesso facilitato agli esperti psicologi e psichiatri convenzionati con il dipartimento, (misure per altro già adottate negli ultimi recenti anni nell’amministrazione penitenziaria). In una fase preventiva ritengo necessario privilegiare la relazione interpersonale e quella di gruppo, al fine di intercettare i malesseri e i malumori anche di tipo organizzativo. Del resto, i contratti collettivi nazionali e il regolamento del corpo di Polizia Penitenziaria prevedono, oltre a una formazione continua, le riunioni quotidiane e periodiche con il direttore, con il comandante di reparto e i suoi stretti collaboratori. Nell’istituto di Altamura io stessa, coadiuvata dal comandante di reparto, dagli ispettori e motivata da buone intenzioni, non avrei potuto ben governare il malessere del personale, senza il sostegno di una formazione che facilitasse la coscienza e la consapevolezza.
Parliamo per i detenuti di attività trattamentali e risocializzanti, di semilibertà, di comunità, di affidamento, di detenzione domiciliare… Quali prospettive per tutti i luoghi di detenzione, in tutta Italia?
Non occorre emanare nuove leggi né costruire nuove strutture detentive. È necessario rispettare e applicare le norme esistenti e lavorare su misure che contrastino l’attuale sovraffollamento. La costituzione e le leggi penitenziarie esistenti prevedono una pena risocializzante che miri alla reintegrazione del detenuto ne1 tessuto sociale, proponendo prospettive lavorative. Attraverso il finanziamento pubblico della legge Smuraglia si può prevedere una defiscalizzazione e un alleggerimento nei versamenti contributivi previdenziali per l’imprenditore che assume persone in stato di detenzione, facilitando anche l’accesso alle misure alternative: l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Bisogna facilitare l’accesso ai progetti finanziati dai fondi europei e regionali da parte delle cooperative, coinvolgendo le persone detenute come attori o dipendenti delle stesse cooperative. Al contrario, non intervenendo, si rischia il collasso del sistema penitenziario che ha bisogno di misure deflattive, di misure che riducano il drammatico sovraffollamento e il conseguente processo di disumanizzazione.
Conclusioni
Nella mitologia greca Argo Panoptes è un gigante con un centinaio di occhi considerato un ottimo guardiano. Il potere, il controllo e il dominio sul corpo di ciascun detenuto è attuato attraverso il panopticon, un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. La costruzione permette a un unico sorvegliante di osservare tutti i detenuti senza che capiscano se siano in quel momento controllati.
L’idea del panopticon, come metafora di un potere invisibile, ha ispirato pensatori e filosofi: René Schérer, Noam Chomsky, Zygmunt Bauman, George Orwell nel romanzo 1984 e il musicista Peter Gabriel. Considero mio maestro Michel Foucault che in Sorvegliare e punire scrive: “[…] L’effetto principale del panopticon è indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere […]”. Il detenuto non deve mai sapere se è guardato, nel momento attuale; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente. Crediamo che la trasformazione dalle relazioni patologiche di dominio alle relazioni sane di potere del ruolo e di energia psichica possano avere inizio superando il modello panoptico. Operiamo per ritrovare e riconoscere la consapevolezza degli sguardi paritari e circolari, le possibilità di interazioni scambiate, la coscienza della sorveglianza, della funzione genitoriale, della guida che ogni essere umano assume verso il prossimo, verso le creature viventi.