Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Anatomia di una scrittura

di Alessandra Tesei

Paul Auster muore il 30 Aprile 2024. Ci lascia un’eredità importante attraverso la sua narrative sagace, inquieta, perturbante. Il suo sguardo – che molti definiscono post-moderno – vede al di là delle cose. Molto al di là.

 

Mentre pensate a Trilogia di New York, pensate a Richard Serra e in particolare a una delle sue opere, il gruppo di sculture The Matter of Time. È difficile spiegare delle sensazioni, ma se potessimo camminare dentro il libro di Paul Auster sarebbe come camminare all’interno dell’opera di Serra. Gli aggettivi da usare sarebbero convoluto, intricato e avvolto. Il verbo è appunto camminare: nello spazio, ovviamente, e però anche nel tempo, che diventa una dimensione tangibile, praticabile.

Camminare come fanno i personaggi austeriani, perpetuamente, e che a ogni passo credono di essere in procinto di raggiungere una spiegazione, che però non c’è. La destinazione finale è l’assenza di soluzioni. Ogni cosa va a finire da nessuna parte.

 

Composto da tre romanzi – Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa – pubblicati tra il 1985 e il 1986 e riuniti nel 1987, Trilogia di New York è un gioco letterario. Come il Don Chisciotte e come il dittico carrolliano di Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio, citati non a caso in modo esplicito da Auster.

“La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo”.

È questo il primo indizio che Paul Auster ci fornisce per provare a farci capire che non verremo soddisfatti da una spiegazione classica, anzi da nessun tipo di spiegazione.

Storia e significato. All’interno dell’opera, i protagonisti cercano un significato in ciò che accade loro. Non lo trovano. C’è solo la narrazione, c’è solo il racconto.

 

Il primo romanzo, Città di vetro, nasce grazie a una coincidenza capitata nella vita di Paul Auster, un numero di telefono digitato male: l’interlocutore stava cercando l’Agenzia Investigativa Pinkerton. Esattamente come accade al protagonista del racconto, Daniel Quinn, che a causa di questo semplice evento decide di impersonare un altro uomo – Paul Auster l’investigatore – e diventa quindi un detective accidentale: questo lo farà effettivamente diventare un altro, o meglio nessun altro, nemmeno sé stesso. Svanirà, si scioglierà, evaporerà tra le strade e i muri di New York, che in questa storia è l’altra protagonista, è lo spazio necessario a creare il linguaggio, che non è tanto parlato quanto pensato e scritto, sulla carta e nell’aria: Peter Stillman, Sr. che cammina e traccia lettere con i suoi passi, e Daniel Quinn-Paul Auster che ne disegna la mappa sul suo taccuino rosso. Lettere che però non ci sono, è soltanto Quinn a volerle vedere, per avere qualcosa a cui attaccare un significato. Capirà poi, e noi insieme a lui, che semplicemente non c’è nulla, forse non c’è mai stato nemmeno l’oggetto della sua ricerca e si lascerà così scomparire, tra le strade di New York o forse altrove. Come farà Blue nel secondo romanzo, Fantasmi, dopo essersi anche lui fuso con Black, l’oggetto della sua indagine, e aver cercato di eliminarlo dall’esistenza, annullando così anche sé stesso. E come fa Fanshawe, oggetto di ricerca de La stanza chiusa, che nella sua assenza è il personaggio più reale, che è già scomparso all’inizio della storia e che l’anonimo narratore lascerà definitivamente andare – avendolo perduto non appena raggiunto – e decidendo consciamente di perderlo, perché anche qualsiasi significato, se mai c’è stato, è andato perso.

 

Auster scrive della scrittura, parla del linguaggio, e gioca con loro in puro stile postmoderno. Cita esplicitamente opere e ne evoca altre in un cammino metanarrativo in cui la convinzione che ogni cosa sia collegata ci spinge in avanti fino alla realizzazione finale del fatto che non c’è nessun collegamento. E se anche ci fosse, l’uscita da questo labirinto sarebbe la caduta nel vuoto. Auster ci inganna, lui sa che alla fine non c’è nulla, ma che tutto invece c’è stato nel cammino che ci ha fatto compiere.

“Si sentiva mirabilmente calmo, come se tutto gli fosse già successo”. E forse davvero è tutto già successo ai personaggi di questa trilogia, come se il tempo fosse un cerchio e passato, presente e futuro fossero simultanei. O semplicemente perché Quinn, Blue e il narratore anonimo de La stanza chiusa stanno scrivendo il loro racconto, ognuno sul proprio taccuino ­­– e lo stesso fanno i loro oggetti di ricerca, Stillman, Black e Fanshawe – e quindi lo stanno vivendo di nuovo, per trovare il senso, per giungere alla conclusione-soluzione ma, raccontando, non possono dire altro che: “Ascoltami. Mi chiamo ­(ci chiamiamo) Paul Auster. Non è il mio (nostro) vero nome”. Perché tutti i protagonisti sono ognuno la versione dell’altro in universi paralleli e, nell’autofiction di un narratore frantumato, tutti sono Paul Auster.

Quinn, Blue e il terzo narratore inseguono tutti qualcosa, si attaccano al loro oggetto di ricerca, ne vengono ossessionati e in questo percorso si auto cancellano, si staccano dalla loro vita precedente e intraprendono una nuova esistenza, che inizia all’improvviso, da un giorno all’altro, e loro non possono conoscere la portata di questa nuova realtà, se ne rendono conto con il passare del tempo, con il loro trasformarsi in esseri liminali attraverso spazi piranesiani.

 

I tre protagonisti si attaccano a qualcosa per poi doversene staccare. Qual è il senso di questa dinamica? Probabilmente non c’è.

C’è il paradosso di uno sguardo che rende le cose invisibili, nel momento stesso in cui le guardiamo non le vediamo più. Una vista che cancella, personaggi che si auto-erodono per giungere a una lingua che si auto-consuma, un messaggio che svanisce nel momento stesso della sua creazione, come nella descrizione finale del taccuino di Fanshawe:

 

“Tutte le parole mi erano familiari, ma sembravano accostate in maniera bizzarra, come se il loro scopo finale fosse quello di cancellarsi a vicenda. Non saprei spiegarmi diversamente. Ogni frase annullava la frase precedente, ogni paragrafo rendeva impossibile il successivo. Strano, quindi, che da quella lettura abbia riportato un’impressione di assoluta lucidità. […] Aveva risposto alla domanda ponendo un’altra domanda, cosicché tutto era rimasto aperto, incompiuto, da ricominciare. […] Eppure, sotto quella confusione, sentivo qualcosa di troppo voluto, di troppo perfetto, come se in ultimo, la sua sola, autentica finalità fosse l’incomprensione, anche a costo di non capire sé stesso.”

 

Aggiungiamo un’altra corrispondenza, oltre a quelle che già Auster ci fa cogliere: Molloy di Samuel Beckett. I protagonisti beckettiani si muovono, cercano, aspettano. Dove vanno a finire? Finiscono davvero? Di nuovo Auster: “Le storie senza epilogo non possono che durare per sempre”. Quinn, Blue e il terzo narratore vanno altrove, non sappiamo dove. Noi li lasciamo (o sono loro a lasciare noi?) alla destinazione finale, che è l’assenza, è qualcosa che non c’è.

Il narratore-autore de La stanza chiusa è anche l’autore di Città di vetro e Fantasmi, come il beckettiano Moran è il probabile autore della seconda parte di Molloy.

Il Moran di Beckett, come Paul Auster il cui vero nome non è Paul Auster, scrive: “È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva affatto”. Molloy e Moran sono l’origine delle coppie della trilogia austeriana: Quinn e Stillman, Blue e Black, Fanshawe e l’anonimo narratore. Soggetto che cerca, oggetto che viene cercato, soggetto che muta nell’oggetto.

Poiché è proprio questo che succede, nelle parole del terzo protagonista: “Dopo tanti mesi passati sulle sue tracce, capii che il rintracciato ero io. Invece di cercare Fanshawe, in realtà ero fuggito da lui. […] Perché se riuscivo a convincermi che lo stavo cercando, voleva dire automaticamente che lui era un altro: un individuo distinto da me”.

Ogni personaggio della trilogia cerca qualcun altro, ma in realtà segue e insegue sé stesso. E non si raggiunge né si comprende. Oppure sì? Forse una sorta di realizzazione c’è, un epilogo:

 

“La conclusione, tuttavia, mi è chiara. […] Tutta la storia si restringe al suo epilogo, e se ora quell’epilogo non l’avessi dentro di me, non avrei potuto iniziare questo libro. Lo stesso vale per i due che lo precedono, Città di vetro e Fantasmi. In sostanza, le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza di essa. Non pretendo di avere risolto nessun problema. Voglio solo segnalare che venne un momento in cui guardare ciò che era successo cessò di spaventarmi. Se le parole seguirono, fu unicamente perché non avevo altra scelta che accettarle, addossarmele e andare dove mi portavano. È tanto tempo ormai che lotto per dire addio a qualcosa, ed è la lotta quello che veramente conta. La storia non è nelle parole: è nella lotta.”.

 

Riesco a capire davvero bene queste parole solo dopo aver riletto Trilogia di New York all’età di trentasette anni, uno meno di quanti ne aveva Paul Auster nell’anno della pubblicazione di Città di vetro. Non so perché io stia confrontando le nostre età, praticamente le stesse in questi due momenti distinti, ma mi sembra che abbia una sua importanza. Ciò che è stato vissuto, la paura, le parole, il distacco e la lotta. I diversi stadi di consapevolezza. Tutto è diventato improvvisamente chiaro, in modo quasi fisiologico. Tuttavia mi rimane inspiegabile, ovviamente. Non sempre le parole funzionano, accade a volte che oscurino ciò che tentano di esprimere. Per cui forse anch’io terminerò in silenzio, o mi racconterò altrove.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Auster, Paul. Trilogia di New York. Trad. it. di Massimo Bocchiola. Torino, Einaudi, 1996.

Beckett,  Samuel. Molloy, Trad. it. di Aldo Tagliaferri. Torino, Einaudi Numeri Primi, 2012.