Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Diari dall’altrove

di Francesca Pacini

I viaggiatori conoscono la differenza tra “visitare” e “vivere” un luogo. Ma esiste anche un’irrequietezza che si sviluppa intorno al concetto  di abitazione, e di terra. Perché a volte casa è in luoghi “altri” in cui ci sentiamo davvero figli del mondo.

 

“ Il viaggio non solo allarga la mente. Le dà forma”

Bruce Chatwin

È essenza di me una dimensione invertita dell’esistenza. Quando viaggio mi sento a casa, quando sono a casa mi sento “straniera”. È così da sempre. E ne ho fatto un’accettazione, una pacifica convivenza con questa dimensione “fisiologica” che mi segna e mi definisce. Di questo aspetto ho anche fatto un’”inchiesta”, domandandomi, sempre, se si tratta di una fuga dall’ordinario, dai disagi, oppure è una vera e propria deformazione esistenziale che mi piega verso altre modalità che fanno del viaggio una risorsa imprescindibile per poter “funzionare” e per vivere a casa mia.

Casa, ma quale? Alcuni di noi sono “figli del mondo”.  Anime di impronta cosmopolita, lontana dai vizi della globalizzazione: gli incroci e le sovrapposizioni di culture diverse sono differenti dalla globalizzazione che sterilizza ogni luogo rendendolo tremendamente uguale a sé stesso, ed è questo l’aspetto che amano e cercano.

Nel mio caso, la ricerca dell’altrove sarà forse colpa del doppio nome. Francesca Barbara. Quel “Barbara” che non uso mai è forse la chiave della mia condizione. Barbara, straniera. Dunque condannata alla nostalgia dell’altrove, per sempre?

Certo è che a volte i nomi segnano davvero un destino. Barbara, berbera. Il mio secondo nome trova una meravigliosa coincidenza con la popolazione indigena del Marocco, una mia terra d’anima, un luogo elettivo in cui ogni volta mi cerco, e mi trovo.

Comunque, dopo anni di indagine e sperimentazione sul campo, dichiaro con sollievo di non appartenere alla tribù di viaggiatori per disagio conclamato. No, non sono una disadattata. Ma mi adatto meglio altrove.

Per alcuni esiste invece una vera e propria patologia del viaggio, una sorta di malessere che affligge chi sta bene solo scappando via da una vita poco amata. E scappando via da sé stessi.

Ne ho scritto molto, in passato, anche in diversi articoli pubblicati. Esistono davvero i “turisti da banane”, quelli che come Oscar Donadieu, il protagonista dell’opera di Simenon, cercano di fuggire dai disagi attraverso un sogno esotico inseguito fra isole calde e mari del sud.

E questi turisti non sfuggono al destino implacabile che si compie ovunque e comunque, come ci insegna Samarcanda. E finiscono con il franare sui loro stessi sogni.

Perché il viaggio non deve essere una fuga da sé stessi ma un ritorno alla nostra intima essenza, quella più autentica. È proprio andando si torna. Si torna a sé.

E quell’altrove mi abita dentro sempre e comunque, facendomi trovare spicchi di felicità anche nel quotidiano legato al posto in cui vivo.

Si tratta quindi di un altrove che fa parte della mia anatomia, così come i capelli ricci, gli occhi verdi.

Sarà davvero per quel Barbara, sarà per quella condizione di eterna “straniera”, ma  questo destino non mi dispiace per nulla. Barbara è il nucleo “dissidente” che si ribella alle convenzioni dell’abitare e del viaggiare.

Chi ha detto, infatti, che la casa non possa essere mobile? Che casa non possa essere ovunque, nel mondo, troviamo sintonie che viaggiano su altre frequenze.

Ed è così che il viaggio, ogni tipo di viaggio, sia interiore che esterno, dilata i confini e li espande,  quasi come a toccare la curva del cielo.

Un cielo che tuttavia resta necessariamente sempre troppo distante, spingendo  il movimento, il cammino.

Senza movimento non esiste la vita. I nomadi, i camminatori, cercheranno sempre di usare quell’altrove per aprire spazi dell’essere finora disabitati.

E sei il viaggio, in fondo, è la metafora della vita, allora il viaggiatore è  colui che conosce – e riconosce- davvero sé stesso.