Capisco che Sergio è appena tornato perché il suo cane smette di gironzolarmi attorno per racimolare qualcosa da mangiare, inizia ad abbaiare, fa un paio di giri su se stesso e poi corre con quelle zampette nane e storte verso il cancello passando dalla porta finestra.
Capisco sempre così, da non so più quanto tempo ormai, che Sergio è tornato a casa: dall’udito del suo cane.
Nei primi mesi di convivenza mi chiamava sempre appena usciva dal lavoro.
Si metteva in macchina e mi chiamava, lo sapevo perché sentivo i rumori della strada dall’altro capo del telefono. Mi chiamava per dirmi che stava tornando perché gli piaceva che io lo aspettassi fuori dal cancello, con il grembiule da cucina allacciato e sotto un body di pizzo bianco perché dopo aver cenato gli veniva sempre voglia e io volevo essere pronta: la moglie e l’amante perfetta.
Al telefono mi diceva tante altre cose che dovevano essere molto dolci e belle perché mi si stampava sul volto uno di quei sorrisi bianchi e smaglianti che si vedono nelle sit-com americane, solo che io non ero un’attrice e non c’era nessun copione, nessuna messinscena: era la realtà.
Per immortalare il sorriso mi scattavo una foto e gliela inviavo, il grembiule della cucina allentato per far intravedere il pizzo sotto. Didascalia: “Solo tu mi fai sorridere così”.
Risposta: “Sei bellissima”.
Forse non era la realtà, adesso che ci penso bene.
Tutte quelle belle parole che mi diceva non me le ricordo più, davvero.
Le foto invece sono rimaste nella galleria del mio cellulare e il mio sorrisetto da sit-com americana, pure. Non le ho cancellate per dimostrare a me stessa che non sono pazza o paranoica, che le cose sono cambiate.
Sto cucinando la cena, la cappa è accesa al massimo e ho acceso anche tutti i fornelli, anche quelli in cui non devo cuocere niente pur di non sentire i suoni che provengono dal giardino di casa e che nessuno sarebbe in grado di sentire con il ronzio della cappa e del gas, ma io invece sì. Sono stata costretta a sviluppare l’udito di un cane, del suo cane, ma a quanto pare non basta. Una serie di guaiti, di scodinzolamenti, di unghie che graffiano e strisciano contro le inferriate del cancello. La chiave che gira nella serratura, il cigolio del cancello che si apre, le zampe spastiche del cane che si arrampicano e si appiccicano ai pantaloni di Sergio, una lingua che sa di pesce marcio che lecca la sua guancia e lui che dice: “Sì, amore mio, sì, sono tornato. Sono qui”.
È così che chiama il suo cane, un bassotto nano marroncino: amore mio, patatina mia, nanerottola mia, nonostante l’abbia chiamata Madame, e lo fa con una vocina che sembra quella di un bambino che non ti verrebbe voglia di abbracciare e di stringere tutto, ma di uno di quei bambini che colpiresti ripetutamente in testa per farlo stare zitto. Come faresti con una pignatta che non si rompe mai e allora tu colpisci più forte, sempre più forte, con una mazza da baseball fino a che dalla pignatta non uscirebbe una cascata di cioccolatini e caramelle.
Faccio dei pensieri orribili, me ne rendo conto. E la cosa peggiore è che non riesco a farne a meno. Sono diventati una specie di necessità fisica come piangere, negli ultimi tempi. Ma fare dei pensieri orribili non fa di me necessariamente una persona orribile. No? È quello che chiedo a me stessa alcune mattine davanti allo specchio, quando cerco nei miei occhi qualcosa, una specie di luce, un guizzo che mi spinga a fare qualcosa, qualsiasi cosa, uccidere il cane, riuscire a lasciare Sergio, diventare la preferita del suo cane, diventare il suo cane, ma per l’amor del cielo non posso continuare ad andare avanti così. Ma non trovo mai niente, nei miei occhi.
E la domanda successiva è: può una persona sana di mente desiderare di essere un cane?
Butto le fettine nella padella, non le adagio delicatamente come facevo un tempo, non le impano nemmeno più con la farina per farle diventare più morbide dentro e croccanti all’esterno. L’olio sfrigola sempre più forte e schizza sul muro e macchia il mio body di pizzo bianco. Sento la porta finestra del soggiorno aprirsi, le scarpe di Sergio sul parquet e le zampe di Madame che gli corrono appresso.
“Ciao amore. Non era meglio ordinare qualcosa stasera?”.
Ho la certezza che si rivolga a me e non a Madame solo quando faccio qualcosa che lei non può fare: pulire, cucinare, fare la spesa, ordinare qualcosa per cena, che sono anche le uniche occasioni in cui Sergio mi chiama amore.
Potrei smettere, forse, iniziare a comportarmi come il suo cane: un parassita che occupa casa, piscia, caga, mangia, si fa fare la manicure alle unghie, un parassita ruffiano monopolizzatore di attenzioni e coccole che fa gli occhi languidi solo a lui. “Lo sguardo sexy del mio amore”: lo chiama così, Sergio.
Ci trovo sempre qualcosa di particolarmente inquietante nel modo in cui lo dice. Mi sembra quasi che in quella voce da bambino ci sia un’incrinatura, un sussulto di eccitazione che mi fa accapponare la pelle. Dico sul serio. Non sono pazza.
Il suo cane sa benissimo che con me le occhiatine sexy non attaccano. Gli unici sguardi che mi rivolge sono quando preparo la cena e mi gironzola intorno per elemosinare qualcosa da mangiare. Io l’accontento sempre e butto per terra qualche resto di cibo carbonizzato.
Sergio appoggia la giacca sulla sedia della cucina e si avvicina, mi stringe da dietro ma senza davvero stringermi, mi appoggia solo le mani sulle spalle e il suo corpo è allineato al mio ma non lo tocca. Se qualcuno entrasse in casa, si posizionasse di fianco a noi e ci scattasse una foto, questa distanza impercettibile si materializzerebbe in uno spazio vuoto, e io mi metterei lì, righello, squadra e compasso per capire quanto misura quella distanza: la lunghezza di un bassotto.
“Non ti avevo detto che era meglio ordinare qualcosa?” mi ripete.
Io gli dico che mi andava di cucinare e che per cena ci sono le fettine alla pizzaiola. Sposto leggermente il grembiule in basso per far intravedere la scollatura e mi giro per dargli un bacio. Un tempo, era lui che mi si appoggiava dietro e mi palpava il seno e io assumevo per un attimo l’aria scocciata da “ma insomma, sto cucinando”. Ero pur sempre una moglie ai fornelli. Si trattava di una posa ovviamente, e dopo pochi secondi lasciavo subentrare l’amante e ci baciavamo.
Adesso mi giro, ma lui si è abbassato per accarezzare il suo cane che gli saltella intorno e dice: “Ma che ha fatto la mia nanerottola, si è emozionata? Ma quanto sei contenta che sono tornato, tu? Quanto sei contenta?” con quella vocina da bambino, di nuovo.
Io nel frattempo apparecchio, apro i cassetti per prendere le posate, le metto sul tavolo accanto ai tovaglioli che ho piegato a portafoglio. Richiudo i cassetti, li sbatto, prendo i bicchieri dalla credenza, chiudo le ante della credenza, le sbatto, apro il frigo e prendo una bottiglia di birra, chiudo il frigo, lo sbatto.
Giro per la cucina come una trottola impazzita, alla ricerca di qualcosa, qualsiasi cosa con cui riempire la tavola: una candela profumata, un centrotavola di pizzo, un completino di intimo sexy, un copione di una sit-com americana e faccio finta di non prestare attenzione a Sergio che scoppia di felicità per la pisciata che il suo cane ha lasciato sul parquet per l’emozione.
Ogni tanto mi viene voglia di provarci pure io: slacciarmi i pantaloni e pisciare in cucina, oppure pisciare sulla tavoletta del water invece che nello scarico per essere anche io come il suo cane, per vedere se Sergio pulirebbe con la stessa espressione tronfia e beata. “Quanto eri emozionata, amore?” mi chiederebbe, forse.
Si alza, sposta le posate, prende dalla tavola apparecchiata i due tovaglioli che avevo piegato a portafoglio, si inginocchia di nuovo, e con uno tampona il piscio e con l’altro strofina il pavimento per asciugarlo meglio.
Poi si alza, i tovaglioli intrisi di piscio nelle mani, mi guarda e fa: “Hai tutto il body unto”. “Ho bruciato le fettine” rispondo io.
Mi metto a piangere.
Piango per le fettine, per la macchia di olio sul body, piango perché anche stasera il telefono di Sergio ha squillato un paio di volte e lui ha riattaccato un paio di volte. Subito dopo aveva digitato rapido qualcosa sulla tastiera, un messaggio, un “Sei bellissima” da sit-com americana, forse.
Aveva aspettato la risposta e si era infilato il cellulare in tasca. “Chi è che ti chiama a quest’ora?”gli avevo chiesto io.
“Sarà qualche cliente con cui ho appuntamento domani”. “E perché non rispondi mai ai tuoi clienti?”.
“Tu non ti preoccupare. Il mio lavoro me lo gestisco da solo”.
“Tu fai sempre tutto da solo. Non ci credo che è un tuo cliente, che è un uomo”. “Non ricominciare anche stasera, ti prego”.
“Sei tu che mi fai ricominciare. Ti sei messo in tasca il telefono. Prima non lo facevi mai. Mi nascondi le cose, mi nascondi sempre tutto.”
“Te l’ho già detto chi era. Non riattaccare con le tue paranoie. Pensi sempre male, Cristo santo”. Piango perché non sono i suoi clienti, le sue clienti.
Sergio si siede di fianco a me sul divano e con la mano fa su e giù dietro la mia schiena, mentre io tengo il viso basso, piegato nello spazio vuoto che formano le mie braccia attorcigliate alle gambe. Sono accartocciata su me stessa, scomposta rispetto al suo cane, che ci guarda accucciato ai piedi del divano.
Sergio però non mi fa le coccole: non mi fa stendere tutta lunga, alzare le braccia e poi le gambe come fa con le zampe di Madame quando la fa salire sul divano, non mi fa il solletico, non mi
accarezza intorno alle orecchie, non mi bacia i seni e non si fa dare una leccatina che non sappia di pesce marcio.
Mi dà solo dei colpetti rapidi dietro la schiena come si fa con un bambino piccolo a cui è andato di traverso il latte. Sento le lacrime scendere lungo il viso, rigarmi il collo e colare sul body sporco di olio che si mescola al trucco sciolto dal pianto.
“Non fare l’esagerata anche per questo. Non è successo niente. Sono solo delle fettine”. “Non sono solo fettine” dico io tra i singhiozzi.
Alzo la testa e vedo che Sergio non mi guarda. Sento la sua mano che continua a fare su e giù dietro la mia schiena, a dare dei piccoli colpetti d’incoraggiamento, come quella di un medico a cui si dice: “Dottore, mi fa male qua dietro” e lui tocca e tasta con la punta delle dita fredde e disinteressate “Qua?”.
Ma non è mai il “qua” giusto.
Guarda in basso verso un punto indefinito, che si trova a metà strada tra le fessure del parquet e la cuccia dove sta Madame, che ci fissa con quei suoi occhi ruffiani e ricattatori perché vorrebbe salire sul divano e farsi fare le coccole da lui. Lo so che Sergio vorrebbe prenderla in braccio adesso e farla salire, lei che non piange ma che piscia dall’emozione appena lo vede, lei che lo ama incondizionatamente anche se torna sempre più tardi dal lavoro e non chiama più per avvisare, lei che non brucia le fettine e non gli chiede chi sia a fargli tutte quelle telefonate la sera. “Non sono il tuo cane, Sergio. Non mentirmi. Non sono solo delle fettine. Vorrei essere il tuo cane ma non lo sono, vorrei scodinzolarti intorno come fa lei nella speranza che tu mi pulisca le macchie di olio dal body e che mi asciughi le lacrime come fai con il suo piscio”.
Sergio si alza di scatto dal divano. “Stai svalvolando con questa storia, Chiara. Sei gelosa anche del cane. Ti rendi conto? Tu non sei un cane. Dovresti essere capace di ragionare, ogni tanto. Non puoi pretendere che stia dietro a tutte le tue pazzie”.
“Non sono il tuo cane ma vorrei esserlo. Mi ameresti solo se fossi come lei” singhiozzo, e adesso chi fa la voce da bambino sono io. Aspetto solo qualcuno che mi faccia rinsavire, che mi colpisca con una mazza da baseball come si fa con una pignatta.
Sergio si gira, si mette di fronte al tavolo della cucina e prende la giacca dalla sedia. Madame capisce, esce dalla cuccia e gli gironzola intorno con quella sua corsetta spastica, le zampe che fanno tic-tac sul parquet, e lo guarda con occhi che se potessero parlare direbbero “portami con te”.
“Dove stai andando?” chiedo.
“Ho bisogno di respirare, Chiara. Non ce la faccio più a sentire le tue paranoie. Mi accusi sempre di tutto. Ho bisogno di aria. A-r-i-a” scandisce.
Adesso è lui l’adulto con la mazza da baseball in mano che sferra un colpo dietro l’altro, ma io sono una pignatta vuota.
Mi alzo dal divano e mi avvicino a lui e davanti gli si para Madame.
“Se sei stanco possiamo andare a letto insieme. Ci mettiamo sul letto e mi faccio perdonare. Hai ragione ho esagerato, esagero sempre”.
Lui indietreggia, il suo cane sempre davanti a fargli da scudo.
“Lo dici ogni volta. Sono stufo di dover giustificare le chiamate di lavoro, di doverti consolare perché tu bruci qualsiasi cosa tutte le sere. Guarda come ti sei ridotta” dice puntando il suo sguardo sul body sporco di olio, di lacrime e di trucco. Non riesce nemmeno a guardarmi in faccia.
Anche se non mi vedo so quale aspetto ho, come il pianto abbia ingigantito e rimpicciolito tutti i miei lineamenti: il naso gonfio, gli occhi gonfi, le labbra piccole e le guance svuotate. Lo so perché quando mi capitano questi momenti mi chiudo in bagno, apro il soffione della doccia, il rubinetto del lavandino e quello del bidet e piango, frigno, singhiozzo e nel frattempo osservo il mio volto allo specchio che si distorce: il naso al posto degli occhi, gli occhi al posto della bocca, la fronte al posto del mento, come un maglione di lana che hai buttato per sbaglio dentro la centrifuga ed è uscito tutto striminzito e sbilenco e non capisci più dove siano le maniche, il buco per infilare la testa, il verso del maglione.
“Sembro la Donna che piange di Picasso” mi dico mentre mi guardo.
Pensarmi come la donna di un dipinto mi restituisce dignità fino a che non esco dal bagno.
So cosa pensa Sergio di me mentre tiene fisso lo sguardo sulle macchie del mio body, quello che vorrebbe dirmi, che sono una pazza paranoica e pure piromane.
“Non mi lasciare qui da sola, ti prego. Ho paura. Ti giuro che non ti chiederò più chi è che ti chiama la sera, che non brucerò più niente e non piangerò più. Basta che non mi lasci da sola, portami con te”.
Mi inginocchio sul pavimento e le mie ginocchia fanno tic-tac. Io e Madame adesso siamo faccia a muso e sento il suo alito sbuffarmi addosso, un alito che ha lo stesso odore di quello di Sergio. “Sei ridicola Chiara. Alzati” fa lui, con lo sguardo lontano, oltre la porta finestra.
“No, perché se tu esci non ritorni più e mi abbandoni. Mi abbandoni sempre”.
“Fai come Madame, ti metti a piangere e a frignare appena mi vedi uscire perché pensi che ti abbandono. Ti sembra normale?”.
Tira fuori dalla giacca le chiavi della macchina, prende il guinzaglio sul davanzale della finestra, e va verso la porta finestra, il suo cane che gli scodinzola appresso: tic-tac, tic-tac.
“Se mi lascio mettere il guinzaglio mi porti con te?” e mi alzo di scatto, mi trascino dietro a loro a qualche passo di distanza. La distanza di un bassotto.
“Tu sei pazza” dice senza guardarmi, si china per prendere in braccio Madame, apre la porta finestra, svolta l’angolo e la sua sagoma sparisce nel buio.
“Vedi, non sono come il tuo cane. Ti sbagli. Lei la prendi in braccio, lei la porti con te. Ti sembra normale? Non sono io, la pazza” dico al suo fantasma.
Mi siedo di nuovo sul divano e fisso la cuccia vuota mentre sento quello che nessuno sarebbe in grado di sentire ma io sì: il cancello che si chiude, la portiera della macchina che si apre, Sergio che accuccia Madame nel sedile davanti, le sue zampe che sfregano sul tessuto dei sedili, la portiera della macchina che si chiude, il motore che si accende, le gomme sull’asfalto e poi più niente. Ho l’udito di un cane, del suo cane, ma a quanto pare non basta.
Mi alzo e dalla porta finestra entra la notte scura puntellata qua e là da qualche stella impercettibile. O forse sono solo i miei occhi stanchi e annebbiati dal pianto che le vedono.
Mi capita spesso, durante la giornata, di attribuire un significato alle cose: una foglia a forma di cuore mentre passeggio, una coccinella che mi si posa sulle dita, delle stelle nel cielo. E invece sono solo una foglia caduta e calpestata da qualcuno, un insetto che vola e si imbatte in quello che non sa essere un dito, degli sprazzi di luce in un cielo buio che non sono altro che rimasugli di speranza che raschiano il fondo.
Alle quattro di notte sento rumore di gomme sull’asfalto, la chiave che gira nella serratura del cancello, il cancello che si chiude, il tic-tac delle zampe di Madame, la chiave che gira nella toppa della porta finestra, Sergio che si sfila la giacca e la appoggia sulla sedia.
Sento tutto e lo sento amplificato ma non è l’udito del suo cane questa volta. È solo la notte che mi assomiglia: una donna stesa sul letto immobile, attenta a non provocare nessun rumore, che aspetta il suo uomo ritornare mentre guarda il soffitto con gli occhi sbarrati, e anche se non vede niente continua a tenerli aperti e ad aspettare, per vedere quanto le cose possono cambiare.
Sergio entra in camera e appoggia la cuccia con dentro Madame ai piedi del letto. Sento il suo respiro, sento il suo fiato caldo alitarmi sul collo, le zampe affondare nella cuccia e il muso rintanarsi tra le zampe, sento il suo sguardo da cane addosso che mi dice “Sei pazza”.
La sagoma di Sergio, illuminata dalle luci del giardino che filtrano attraverso le tende, va verso l’armadio. Si toglie la camicia senza sbottonarla fino in fondo, si china e si toglie le scarpe, si sfila la cintura dai passanti e poi i jeans. Piega rapidamente i vestiti e li appoggia sul pouf. Rimane in mutande, il massimo della nudità che mi concede negli ultimi tempi, a parte certe volte in cui da sotto la doccia urla “Amore, mi porti lo shampoo?”.
“Dici a me?” gli domando sovrappensiero prima di ricordarmi che il suo cane non sa ancora come prendere il flacone di shampoo dal mobiletto del bagno.
Lui è dentro la doccia, si passa la spugna sul collo, sulle spalle, sul petto, dietro la schiena, sulle gambe, in mezzo alle gambe.
Lo osservo mentre tiene gli occhi chiusi per non farci entrare il bagnoschiuma, e penso che sembra uno che non si sta solo lavando, che la doccia è una specie di momento preparatorio o conclusivo di qualcosa di più importante. Lo capisco da come si strofina la spugna dappertutto e dalla sua espressione appagata, come se fosse reduce da un prima e fosse in attesa di un dopo certo, sicuro.
O forse è solo uno che è contento di farsi una doccia. Cerco solo di attribuire significato alle cose. “Allora, me lo passi questo shampoo?” mi chiede, quando riapre gli occhi e mi vede lì, impalata di fronte alla doccia, con lo shampoo in mano.
Apre il box e glielo passo. “Grazie amore” e lo richiude al volo.
Non sono più i tempi in cui mi concedeva di dargli una strizzatina, di giocarci un po’ e di fare la doccia insieme.
“Ti serve qualcos’altro?” gli chiedo, nella speranza che mi dica di dargli una strizzatina, di entrare in doccia con lui, di portargli il rasoio, la schiuma da barba, un caffè, un bicchiere d’acqua, un centrotavola, un completino di pizzo sexy, qualcosa, qualsiasi cosa.
“No, tranquilla” e si volta di spalle, si insapona i capelli e poi continua a sfregarsi in mezzo alle gambe.
Voglio essere una spugna. Voglio essere il suo cane che ha imparato a insaponarlo. Voglio essere tutto, ma non me stessa, che fisso il mio uomo con le mani vuote.
Sergio si infila sotto le coperte piano, prima una gamba e qualche secondo dopo l’altra, sta attento a ogni minimo spostamento d’aria che il suo corpo potrebbe produrre sul letto e di conseguenza sul mio sonno.
Lo sa che sono sveglia, che lo aspetto sempre sveglia, ma si comporta come se non lo fossi per farmi credere che lui pensi che io stia dormendo.
Ma è una recita che si ripete quasi ogni sera, dove lui è l’attore e io uno spettatore. Solo che la recita non è come lo spettatore credeva, e si alza per andare all’uscita, ma la porta non si apre. Davanti c’è qualcosa che la blocca, però in sala è tutto buio e lo spettatore non riesce a capire di cosa si tratta e torna a sedere per assistere alla recita, per vedere se le cose possono cambiare. Scivolo vicino a lui, la mia parte del letto è diventata improvvisamente fredda, e gli sussurro: “Sono sveglia.”
“È tardi. Dormiamo” dice, mi dà un colpetto sulla spalla e si gira su un fianco. Anche io rotolo sul fianco destro, mi avvicino e lo stringo con il braccio libero. Gli accarezzo la mano e lui la tocca, la tasta con le punta delle dita fredde. Poi se la rimette lungo il fianco. Gli accarezzo una coscia, passo le mie dita fra i suoi peli e poi procedo in su lenta e cerco di contrastare il tremolio della mia mano che sale verso le mutande, che lo tocca proprio lì in mezzo.
Sergio si sposta ancora di più sul fianco ma io lo anticipo, e infilo la mano dentro le sue mutande veloce, furtiva. Lo tocco, lo tasto con la punta delle dita calde, ma non c’è niente lì sotto.
Continuo a cercare, a tastare ma non c’è niente, non sento niente. Mi dimentico sempre che non è più come prima, quando per farglielo alzare bastava solo toccarlo da qualsiasi altra parte che non fosse lì, in mezzo alle gambe.
La sua nudità si rimpicciolisce ogni sera sempre di più, gli si affloscia e gli penzola sempre più moscia e raggrinzita dentro le mutande. Ho paura che prima o poi me la ritroverò da qualche parte sul pavimento di casa e come se fosse una sacra reliquia la metterei dentro una teca che luciderei ogni giorno, l’ennesima prova che prima era tutto diverso, che le cose sono cambiate davvero.
“Sono stanco. Domani lavoro” mi dice. “Anche io lavoro, domani”.
“Ti hanno licenziata due mesi fa, Chiara. Dormiamo adesso”.
“Non ti eccito più. Non vuoi che ti tocchi, non mi tocchi mai. Stai con me solo perché ti faccio pena. Dillo, Cristo santo. Dillo che non ti eccito, che non mi ami”.
“Non ce la faccio a continuare così” e si alza. “Dove vai? Perché mi abbandoni? Portami con te”. “Sul divano, cazzo. Ho bisogno di dormire”.
Si china, prende la cuccia del suo cane e nella penombra della stanza vedo che, dalla sua sagoma che va verso la porta, fanno capolino due orecchie dritte e pelose che puntano nella mia direzione. Mi stanno minacciando, mi dicono che sono in pericolo.
Poi la sagoma esce, chiude la porta e io scivolo sotto le coperte, mentre premo forte le mani contro le orecchie per non sentire più il rumore spaventoso del suo cane che digrigna i denti aguzzi e affilati da dietro la porta. Chiudo gli occhi e mi rintano dentro il letto, sempre più in fondo.
Non so dire con precisione quando, ma a un certo punto della notte mi alzo, provo ad aprire la porta. Davanti c’è qualcosa che la blocca, ma nella stanza è tutto buio e non riesco a capire cosa. Provo a tastare, a toccare, le mie mani fluttuano nel buio come quelle di uno zombie. La trovo: è bassa e pelosa e ha qualcosa di umidiccio, forse è un naso, da cui proviene un fiato caldo e che sa di pesce marcio. La colpisco, la prendo a pugni, poi a calci, poi a testate, ma il fiato caldo continua a salire, sempre più forte, sempre più vicino.
Nella stanza non c’è più aria e inizio a tossire. Anche il mio fiato sa di pesce marcio, ma non riesco a smettere, tossisco finché non ce la faccio più e mi accascio a terra, vicino alla cosa bassa e pelosa.
Non sono pazza, davvero.
Sergio è in bagno che si fa la barba, io gli preparo il caffè. Madame gironzola per casa e sento le sue zampe che fanno tic-tac sul parquet, entra ed esce dal bagno da cui si sente una voce da bambino che dice “Ma chi c’è qui? Chi c’è? La mia piccolina? Il mio amore pelosetto?”.
Nel suo andirivieni eccitato il suo cane ogni tanto si ferma in cucina e mi guarda, ma non si avvicina. Lo sa che io non faccio mai la voce da bambino, non con lei almeno. Non ho neanche qualche pezzo di cibo carbonizzato da offrirle. Mi guarda, solleva il muso, mi minaccia con le sue orecchie da diavolo e riparte verso il bagno: tic-tac, tic-tac.
Viene da me solo per ricordarmi che lei è un cane e io no. E che sono in pericolo.
Sergio esce dal bagno insieme a Madame. Gli vado incontro e gli porto la tazzina perché so già che non ha tempo per sedersi e fare colazione con me.
Si sveglia sempre più in ritardo negli ultimi tempi e tra qualche giorno dirà che è così in ritardo che uscirà di casa in pigiama e si vestirà direttamente in ufficio, prenderà il caffè nel bar di fronte e sarà così in ritardo con gli appuntamenti che gli toccherà lavorare pure di notte e a quel punto non avrebbe senso tornare a casa a dormire.
“Grazie, amore” dice.
Sono piuttosto sicura che si rivolga a me, il suo cane non lo sa ancora fare, il caffè. Finisce di bere e fa leccare la tazzina a Madame. Si guarda l’orologio coperto dal polsino della camicia e dice “Sono in ritardo” e appoggia le sue labbra che sanno del suo cane sulle mie, con la stessa passione con cui un genitore appoggia le labbra sulla fronte di suo figlio per controllare se ha la febbre.
“Scotto?” gli chiedo.
“Scotti?” risponde senza capire, e mi guarda il body di pizzo, ma quello indosso è pulito. Non ha più nessuna macchia d’olio in cui rifugiarsi.
Né io né lui parliamo di quello che è successo la sera prima, nessun tipo di riferimento o allusione. Ci comportiamo come non fosse successo niente, come se non fossero successe tutte quelle cose che succedono da un po’ di tempo, e tra tutte, quella che mi preoccupa maggiormente è la situazione del suo pene, che si raggrinzisce nelle mutande ogni giorno più. Questo, forse, glielo dovrei dire, o potrei chiamare un urologo senza dirgli niente e farglielo trovare nel letto al posto mio. Magari da lui se lo farebbe toccare.
“Se stasera non hai voglia di cucinare, chiama in rosticceria. Fanno anche servizio a domicilio” mi dice mentre si mette le chiavi di casa in tasca.
“No, mi va di cucinare. Stasera però non faccio le fettine. Le brucio sempre, le fettine”. Lui mi guarda e sembra che stia per dire qualcosa, poi si blocca.
“A stasera allora. Forse tarderò un po’” è quello che riesce a dire, ma so che non era quello che voleva.
Prende il guinzaglio, lo infila al collo di Madame e le chiede “Andiamo al lavoro, amore?”.
Stasera ho deciso che quando Sergio e il suo cane rientreranno a casa non mi troveranno ai fornelli come al solito, con il body di pizzo macchiato di olio che spunta da sotto il grembiule. Non troveranno nemmeno la cena bruciata, perché ho deciso che non cucinerò niente. Il suo cane non mi gironzolerà intorno per elemosinare qualcosa da mangiare e a Sergio, quando mi vedrà, verrà un altro genere di appetito. Stasera, mi vedranno entrambi come non mi hanno mai vista.
Ho capito quello che serve per tornare ai tempi in cui le cose non erano ancora cambiate, quando vedevo ancora qualcosa fare capolino dalla patta dei pantaloni di Sergio, quando il suo cane non mi puntava contro quelle orecchie per farmi sentire in pericolo e gli penzolavano flosce, lungo il muso.
Mi sfilo la t-shirt, il reggiseno, i pantaloni del pigiama e le mutande.
Rimango nuda e per un attimo penso che basterebbe solo questo per stupire Sergio. Non mi ricordo nemmeno più quand’è l’ultima volta che mi ha vista così. Io pur di vederlo nudo tolgo sempre la boccetta di shampoo dal box della doccia, così mi può chiedere di portargliela mentre si lava. Con me, lui non avrebbe bisogno di ricorrere a mezzucci del genere, neppure di togliermi i vestiti, visto che me li tolgo da sola pur di farmi vedere nuda.
Ci avevo provato qualche volta, quando eravamo sul letto. Gli prendevo la mano per fargli sentire la mia carne scoperta e calda sotto la punta delle sue dita fredde, ma lui la ritraeva sempre. Allora scivolavo fuori dalle coperte per fargli vedere tutto, mi piazzavo sopra lui, che diceva “Sei pazza”, quello che mi dice sempre ultimamente. Stasera non me lo potrà proprio dire, perché stasera sarò il suo cane. Ma non piscerò sul pavimento per l’emozione e non lo leccherò sulla guancia con un alito che sa di pesce marcio.
Ho sistemato tutto quello che mi serve in fila, sul letto di camera nostra.
Inizio con la pettorina leopardata che Sergio mette al suo cane quando d’inverno vanno a passeggiare al porto e la infilo al posto delle mutande, la parte più larga dietro e quella più stretta davanti. Per farmela stare su faccio fare un giro ai lacci della pettorina e li annodo intorno alla vita. È meglio di qualsiasi tipo di intimo sexy esistente sulla faccia della terra, la pettorina lascia intravedere tutto quello che c’è da vedere, tutto quello che il suo cane non avrà mai.
Poi prendo la copertina fucsia con cui Sergio asciuga Madame dopo averle fatto il bagnetto. La piego fino a che non diventa una striscia sottile, la stringo per bene e l’annodo dietro la schiena. Sul letto è rimasto solo il guinzaglio nero che allaccio intorno al collo come fosse una collana di diamanti. Il mio guinzaglio però anche se è fatto di corda è ancora più prezioso, perché Sergio potrà utilizzarlo per portarmi a spasso, per portarmi al posto del suo cane ovunque lui vada quando la sera dice che ha bisogno di aria ed esce di casa.
Mi guardo allo specchio e sorrido, e sento la voce di Sergio che mi dice “Sei bellissima”. Non sono pazza, e non sono il suo cane: sono molto di più. Forse ho sprecato troppo tempo con quei body di pizzo addosso.
Quando Sergio entra dalla porta finestra io non sono in cucina come al solito. Sono seduta sul letto con i piedi dentro alla cuccia di Madame. Sento che appoggia la giacca sulla sedia della cucina, le zampe del suo cane che fanno tic- tac sul parquet e i loro passi che si avvicinano alla camera quando dico “Sono qui, amore”.
Sergio apre la porta, dietro di lui intravedo due orecchie appuntite e un fiato caldo entra nella stanza. Ma non sono io quella in pericolo, non stasera.
“Ti piace il mio nuovo completino?”.
Mi alzo dal letto e faccio un giro su me stessa, i lacci della pettorina che mi si infilano nel sedere e il nodo dell’asciugamano che si allenta e mi scopre il capezzolo destro. Sergio mi guarda giusto il tempo per accorgersi che non ho su il solito body di pizzo sotto al grembiule. Poi distoglie subito lo sguardo.
Io gli fisso la patta dei pantaloni ma non c’è niente lì dentro che si sta gonfiando. Più concentro il mio sguardo lì e più mi sembra che una forza invisibile lo risucchi dentro a un vortice che lo ridurrà ad un essere tutto raggrinzito e moscio, una di quelle piante morte che uno si ostina a non voler buttare nell’immondizia nonostante gli siano cadute tutte le foglie.
Dietro di lui le orecchie del suo cane mi puntano, i peli dritti le fanno sembrare ancora più alte e aguzze del solito. Inizio a sentirmi di nuovo in pericolo. Torno a guardare Sergio negli occhi.
“Ti va di portarmi un po’ a spasso, amore?” dico, e sventolo in aria il guinzaglio. Lui non dice niente e le sue pupille vagano impazzite alla ricerca di qualcosa dentro la stanza da guardare: l’armadio, il muro, il comodino, ma non me.
Poi dice “Sei pazza, Chiara”.
“Non sono pazza, voglio solo che tu mi porti a spasso un po’” e mi avvicino con il guinzaglio in mano, la mia collana di diamanti, la mia ultima speranza.
Lui indietreggia, anche Madame indietreggia insieme a lui, a colmare la nostra distanza il guinzaglio che penzola a terra. Ma Sergio non lo raccoglie, prende Madame in braccio e va verso la porta finestra, senza nemmeno mettersi la giacca, sfila solo dalla tasca le chiavi della macchina, lasciando quelle di casa sul tavolo della cucina.
“Dove vai? Perché mi abbandoni?” dico con la voce da bambina mentre lo seguo. La pettorina leopardata mi si slaccia e il nodo dell’asciugamano si allenta sempre di più. Potrei rimanere nuda da un momento all’altro con solo il guinzaglio al collo, ma tanto lui non mi guarda.
“Ti prego amore, non mi lasciare da sola. Puoi portarmi a spasso. Hai visto, non mi sono macchiata il body e non ho bruciato niente. Perché mi abbandoni? Lo sai che ho paura quando non ci sei” piagnucolo, ma non piango come vorrei, non posso, non stasera. Stringo forte il guinzaglio e mi porto a spasso da sola verso di lui.
“Vuoi che ti passi almeno le chiavi di casa? Come fai a rientrare stasera senza? Sergio per favore” mi inginocchio a terra di fronte a lui che mi dà le spalle.
“Perché non mi dici che sono ridicola, adesso? Perché non me lo dici? Portami con te”.
Sergio sbatte la porta finestra dietro di sé. Non mi dice nemmeno più che ha bisogno di aria o che è in ritardo, o che quando tornerà stasera suonerà il campanello perché tanto sa che lo aspetto sempre sveglia.
Raccolgo la pettorina da terra, mi alzo e me la riallaccio in vita.
La notte scura entra in cucina anche se la porta finestra è chiusa. Mi affaccio e cerco nel cielo qualche stella impercettibile. Mi sembra che ci sia qualcosa di luminoso che squarcia la notte, ma è distante, in un pezzo di cielo che non mi è concesso di vedere bene. O forse si tratta semplicemente di una luce che proviene dalla strada e riflette sul vetro della porta finestra.
Provo a spingere la maniglia e la porta si apre, non c’è più niente davanti che la blocca. Mi accuccio sullo scalino e guardo in alto, verso quel pezzo di cielo troppo lontano. Quel luccichio è scomparso, risucchiato dalla notte, un mantello troppo scuro e pesante che copre tutto. Non sento nemmeno il rumore della portiera dell’auto che si apre, le zampe di Madame appoggiarsi sul sedile, Sergio che accende il motore e le gomme sull’asfalto.
Guardo il cielo e ora che posso piango, le lacrime dal viso scendono sulla coperta fucsia e colano fino alla pettorina.
Non ci assomigliamo più, adesso, io e la notte, e chiudo gli occhi, per non vedere più fino a che punto le cose possono cambiare
Martina Controne
Nasce a Senigallia il cinque luglio del duemila. Fin da bambina, si domanda ossessivamente il perché delle cose. Non vede l’ora di finire il liceo per iscriversi a filosofia: nello studio dei concetti spera di trovare le risposte giuste. Ma la filosofia la delude e a quel punto si chiede se si stia ponendo i giusti perché. Si rende conto che l’unico momento in cui trova delle risposte senza cercarle è quando scrive delle storie, apparentemente molto lontane da lei.