Una storia vera” è uno di quei film che raccontano i cicli che si ripetono. David Lynch esplora la presa di coscienza della realtà facendo di un viaggio l’occasione per svolgere la propria vita nel presente che mescola il ricordo all’attesa…
“Hai fatto tanta strada con quel coso per venire da me?” dice Lyle ad Alvin.
Poi Lyle guarda il trattore ridotto a poco più di un rottame parcheggiato di fronte a casa sua. Vorrebbe piangere e si vede, ma trattiene le lacrime, le labbra tremano e la mascella pulsa, sul viso un’espressione di gratitudine commossa e quasi timida, di chi pensa di non meritarselo.
“Sì, Lyle” gli risponde Alvin, anche lui commosso. Il suo sguardo incrocia quello del fratello per un istante, poi lo abbassa subito, come se fosse imbarazzato, come se l’amore sotteso dietro a quel gesto fosse troppo. Anche per Lyle è troppo quell’amore e così guarda in alto, verso il cielo.
Alvin lo segue e anche lui guarda in su, e i loro occhi, che coincidono con la macchina da presa, affondano nel cielo stellato sopra di loro.
E noi pensiamo che l’abbiamo già visto questo cielo stellato, all’inizio del film.
C’è una chiara intenzione dietro alla ripresa di questo elemento in due momenti opposti, distinguere tra il prima e il dopo l’incontro dei due fratelli e sottolineare la circolarità del ritorno di Alvin.
Quando il film comincia, la macchina da presa si addentra piano nel cielo stellato, non è ferma anche se sembra, scava e procede con lentezza nelle stelle, che raffigurano l’impenetrabile, l’irriducibile.
L’esitazione con cui essa si muove è la stessa che ha Alvin prima di partire. Ha paura di ritornare, ma deve, e la sua ostinazione nel mettersi in viaggio con tutte le difficoltà del caso sembra come suggerirci che il ritorno non è un punto determinato da un inizio e da una fine. Piuttosto, è una linea infinita e continua che si estende e procede nel suo corso anche quando sostiamo in un luogo.
Prima della sua partenza Alvin, anche se non lo sa, si sta muovendo e il ritorno, anche se non da un punto di vista concreto, tangibile, si sta compiendo in quell’impercettibile movimento. Proprio in quella distanza che lo separa da Lyle prima di partire, risiede il motore primo e originario del ritorno e sempre in quella distanza si consuma una parte di esso.
Quando ci si separa da un luogo, da una persona o da una situazione, quando si è lontani, si ha infatti come la sensazione di non essere mai partiti davvero. Quei momenti, quegli spazi che lasciamo, vengono ripercorsi attraverso il ricordo, e nonostante la loro distanza materiale, continuano ad agire inconsapevolmente dentro di noi, a svilupparsi e ad intersecarsi con tanti altri spazi, volti e situazioni che vediamo e viviamo nel frattempo.
In questo caso non si parte mai davvero, non ci si separa mai del tutto, e proprio per questo il ritorno non può verificarsi compiutamente, nel caso in cui lo si concepisca come ripetizione dell’identico.
È impossibile credere di poter trovare ciò che abbiamo lasciato uguale a quando eravamo lì, perché come noi, muovendoci o nello spazio fisico, o attraversando i luoghi del passato sulla scia del ricordo e delle emozioni, finiamo per trasformarli in qualcosa di altro, allo stesso modo quando eravamo lì fermi non riuscivamo a coglierne l’essenza perché non c’eravamo mai per davvero.
Non siamo capaci di individuare il centro, il cuore delle cose quando sono davanti a noi, c’è sempre qualcosa di oscuro che ci sfugge e che diventa chiaro solo quando partiamo, quando interponiamo una distanza (all’interno già della quale è implicito il ritorno) tra noi e le cose.
Quindi partiamo, ci mettiamo in viaggio, che può essere metaforico o reale, in cui la distanza aumenta e si accorcia, un viaggio in cui Alvin parte, abbandona, ritorna e ritrova.
Nel suo percorso ritorna verso se stesso e allo stesso tempo da Lyle, e ripercorre gli eventi della sua vita incontrando persone a cui confida delle cose che si dicono solo a chi non si rincontrerà mai più.
Proprio in questo duplice movimento che si ha durante il viaggio, in cui punto di partenza e di arrivo coincidono, e che avviene prima con il pensiero e poi con il corpo, si consuma il ritorno, che non combacia con la meta ultima, con il luogo specifico verso il quale Alvin o verso il quale noi siamo diretti.
Il ritorno è un non luogo, è ovunque e da nessuna parte, risiede in ogni tappa in cui Alvin sosta durante il suo cammino, risiede in ogni momento della sua vita che precede il viaggio, ma non è mai propriamente nessuno di questi luoghi, e soprattutto non è quello verso il quale sta tornando.
Per dirla con Aristotele, il ritorno è sempre in potenza e mai in atto nel momento in cui accade, lo è solo prima o dopo la sua epifania. Il ritorno si realizza pienamente nella sua attesa, in tutti quei momenti che lo precedono e in cui ci prefiguriamo come sarà tornare.
Alvin, a bordo del suo trattorino, pensa a come sarà rivedere Lyle dopo tanto tempo, pensa alle parole tremende che si sono detti l’ultima volta. È impaziente perché vorrebbe chiedergli perdono prima che il fratello si spenga per la malattia, è ancora arrabbiato forse, è dubbioso allo stesso tempo, non sa quale sarà la sua reazione.
Quando finalmente Alvin arriva, i due si siedono sotto il portico di casa di Lyle. Si scambiano solo un paio di battute e qualche occhiata. Sono dieci anni che non si vedono, avrebbero tante cose da dirsi, specie Alvin che ha macinato più di trecentocinquanta miglia per vederlo. In quel momento però, si impone il bisogno da parte di entrambi di starsene in silenzio, uno di fianco all’altro con la faccia rivolta in alto a guardare il cielo stellato, come facevano quando erano bambini.
Tutto ciò che Alvin voleva dirgli, in realtà, gliel’ha già detto mentre ritornava e tutte le parole, i pensieri fatti durante il viaggio ora gli sfuggono, come se non fossero mai stati suoi.
Quando finalmente si ritorna e ci si ferma, ci si sente svuotati e stanchi, non restano che le ceneri del desiderio, della voglia o della paura che si aveva di ritornare e si rimpiange quella sensazione calda e rassicurante provata prima, quando ci si prefigurava il ritorno e inconsapevolmente lo si ritardava per continuare ad oscillare nell’attesa.
Eppure, quello stare silenzioso esprime il desiderio, simboleggiato dal cielo e dalle stelle, di rimettersi in viaggio di nuovo per poter vivere davvero quel ritorno che è una tensione costante, impossibile da cristallizzare, capace di generare una disparità tra ciò che viviamo durante e ciò che di questo riusciamo a spiegare.
Il ritorno non è definitivo, è breve, fugace, spiana la strada ad Alvin per mettersi di nuovo in cammino. Solo quando ripartirà potrà trovare le parole, opacizzate dalla patina del ricordo, che gli consentiranno di ricostruire e di vivere davvero quel ritorno.
E solo quando si troverà lontano, a distanza, allora inizierà a sentire nostalgia e inizierà a seminare qualche altro pretesto per ritornare ancora una volta, che sia con la mente o con il corpo.
Ma il cielo stellato sembra suggerirci anche qualcos’altro, un’altra possibilità, e Alvin e Lyle l’hanno capito. Si può stare nel momento del ritorno senza la pretesa di comprendere cosa stia davvero accadendo, semplicemente riconoscendo e accettando che c’è qualcosa di irraggiungibile ma bellissimo, che sono le stelle, il cielo, e che prima di ripartire, tra un ritorno e l’altro, ci è concesso di stare a guardarle.