Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Morire firmati

di Francesca Pacini

L’Occidente esporta. Ma cosa? Oggi più che mai la diffusione  di un modello che si è svolta sotto l’egida statunitense mostra il volto più oscuro. E a volte questo volto si mostra in un dettaglio. Come quello di un pantaloncino addosso a uno dei tanti palestinesi sterminati  a Gaza, ogni giorno…

 

L’ennesimo massacro. Nella Striscia si muore ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. C’è un dettaglio che mi colpisce, catturo quel frammento dal video fissandolo nel tempo con un fermo  immagine. Sui  pantaloncini di un ragazzo, ucciso dai bombardamenti di quel lembo di terra diventato un campo di sterminio  ( e che la nostra pavida stampa non mostra) campeggia  la scritta VERSACE. Finto Versace, ovviamente.

A volte dettagli minuscoli raccontano storie giganti. Questa è la storia grottesca di una beffa, di una realtà illusoria  in cui l’ Occidente con cui si veste la versione povera dei brand “globali”  è  lo stesso Occidente vigliacco e timoroso che non muove un dito per difendere Gaza.

Morire bombardati fa schifo. Morire con un pantaloncino “firmato”, o meglio, con un pantaloncino che imita le firme della moda, fa ancora più schifo.

Perché è un dettaglio sottile eppure emblematico. Un dettaglio, quel finto Versace, che tuttavia  è il sintomo di un mondo invertito.

Perfino a Gaza, perfino nella prigione a cielo aperto sono sbarcate negli anni la Coca Cola e i marchi della globalizzazione. Al posto dei diritti umani, quelli di cui saremmo, in Occidente, campioni, è arrivato, appunto, il finto Versace.

Da Gaza, ben  prima del 7 ottobre, non si entrava e non si usciva  senza la richiesta di motivazioni precise e infiniti permessi. Salvo poi, per un palestinese, non avere più diritto al ritorno. Eppure i modelli occidentali entravano, eccome se entravano. Nel 2014 la Coca Cola ha perfino deciso di aprire un impianto a Gaza.

L’Occidente libero vuole una sola libertà, la sua. E ha a cuore solo alcuni diritti, i suoi.

Eppure per molti, soprattutto per i ragazzi, rappresentava ancora il sogno. Un sogno che a Gaza entrava solo con gli ovetti kinder (che compaiono perfino nel bellissimo, struggente  Se ogni mattina a Jenin di Susan Abulhawa), la Coca Cola, la musica ameicana e le mode da imitare.

Il governo israeliano, lo stesso che nega da mesi gli aiuti umanitari, con i suoi coloni che assaltano i camion e rovesciano farine, da anni  controllava cibo, acqua (contando perfino le calorie di cui i palestinesi avrebbero avuto bisogno), e materiali di ogni tipo.  E tuttavia il modello occidentale, di cui Israele è l’avamposto mediorientale (in realtà è  il suo colono autorizzato) si è insediato e ha trasportato con sé i suoi materiali di scarto. Perché le firme, i marchi, sono davvero il braccio commerciale di una globalizzazione che sta mostrando tutto il suo lato più nero. “Il problema è che fino a quando penseremo di avere il monopolio del bene, fino a che parleremo della nostra come dell’unica civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla buona strada”, scriveva terzani in Lettere contro la guerra. Denunciava, Terzani, il materialismo attraverso cui la nostra civiltà era diventata protagonista di un progressivo impoverimento di valori e virtù. Oggi assistiamo davvero, impotenti, al loro tramonto definitivo. Ẻ l’ascesa dell’ombra, in cui la luce, come nella metafora del Sacro Graal, si occulta. Sono i tempi del buio, sono i tempi degli angeli neri. Ma la luce si occulta, non muore.

La luce tornerà solo quando Gaza sarà libera. Solo allora, potremo tornare a “essere umani”. O domandarci perfino se lo siamo mai stati. E allora forse nascerà un nuovo umanesimo. Ma quanti morti ancora, quanti? Quanti bambini, quante madri?

Il ragazzino palestinese di questo video non ha un nome. L’unico nome è quel Versace stampato sui pantaloni. E invece un nome lo aveva. Ognuno di loro aveva un nome. E aveva una storia, una vita, un sogno, un destino. Aveva un padre e una madre, un fratello, un amico, una sposa. Restano solo lacrime, macerie di vite a brandelli, per sempre.

Ẻ  ironico che sia morto con quel Versace stampato addosso.

Versace è il lusso, è l’Occidente degli sfarzi e dei luccichini, è la globalizzazione del desiderio futile.

Anche Versace è stato ammazzato. L’unico punto comune di vite agli opposti.

Il mondo “global” ci fa vestire uguale, mangiare uguale, parlare uguale, pensare uguale. In realtà, di uguale c’è solo il peggio. Perché mai come in questi ultimi anni, e mesi, è apparso come il modello occidentale sia viziato da un’arroganza senza pari. Un modello autoreferente, narcisistico, manipolatorio. Padroni del mondo, paladini del mondo, garanti del mondo. Sì, del mondo come così come lo vuole l’America. Un mondo fatto a sua immagine, consumo e sfruttamento.

Gli altri sono visti solo dei barbari, esattamente come descriveva Edward Said nel suo Orientalismo.

Come siamo lontani dal vero Medio Oriente, da quella cultura araba spacciata solo come terrorismo, arretratezza. Una cultura invece pregna di raffinata poesia, di filosofia, di architetture meravigliose così come la calligrafia e le metafore racchiuse nella lingua.

Una cultura animata dal senso ineffabile di comunità, sorrisi, accoglienza. Sì, una cultura che ha conservato tradizioni antiche, più che altrove, e che resistito meglio – per molti versi – allo sfiancare del Tempo.

Solo la nostra spocchia padronale ci fa considerare “barbaro”, ieri come oggi,  tutto ciò che non conosciamo. Senza capire che è veramente nel riflesso “straniero”, e dunque a noi ignoto, estraneo, che possiamo trovare stimolo, crescita e arricchimento. E non ci rendiamo conto delle storpiature che abbiamo accumulato, ingrassati dalla materia, inebetiti dalla religione di Wall Street che detta il valore di questo pianeta.

Dovremo fare i conti, prima o poi, con quel che resta della nostra civiltà. Dovremo renderci conto che siamo solo una macchia colorata in un mappamondo gigante in cui si stanno ridisegnando le geografie dei popoli, e dei poteri. Siamo, saremo, una macchia sempre più isolata, sempre più fragile. Non lo vediamo, adesso. Adesso ci sentiamo ancora i figli dell’Occidente. Ma saremo orfani, un giorno, di questo Occidente al tramonto.

Del resto, in questo momento dall’Occidente è  meglio stare lontani. La contaminazione, l’esportazione dei nostri modelli  in molti luoghi  è  stata solo commerciale, perché i diritti umani, la difesa della libertà, l’illusione della democrazia sono solo un sogno dal quale ci stiamo svegliando a suon di ceffoni. Non possiamo esportare proprio nulla, perché dobbiamo invece costruire, a casa nostra. Costruire una società diversa, una società più vera, che metta l’uomo al suo centro.  Quella che abbiamo sta velocemente affondando. Ma se ne accorge solo chi usa ancora la sua testa, e il cuore.

A Gaza si sta spegnendo anche un mondo. Il mondo in cui avevamo sperato di vivere.

A Gaza termina l’illusione della democrazia, della libertà, della giustizia e dei diritti umani.

A Gaza crolla la legalità internazionale.

Chissà, è come se la Palestina avesse deciso di prendere su di sé, come un agnello sacrificale, tutte le ombre rifiutate di questa terra.

Un tempo l’agnello veniva mandato a morire nel deserto.

Oggi invece i palestinesi crepano a casa loro, nella loro terra usurpata. nche se il piano sionista sarebbe proprio lo sfollamento forzato dei nativi nel Sinai. Ma loro no ci stanno, non si rassegnano a scomparire altrove portando via i pesi e la mondezza degli altri, rifiutano questa tragica proiezione e mostrano invece al mondo tutta la fragile impalcatura della manipolazione sionista.

Questo agnello si sacrifica ma resta a casa, la sua. Abbraccia gli olivi incendiati nel misero tentativo di distruggere ogni memoria, ogni legame, ogni bellezza.

Già, sembra quasi che il martirio dei palestinesi abbia il compito dolorosissimo di togliere l’illusione, di strappare i veli, costringendo gli addormentati a svegliarsi, e i miopi a inforcare un paio di occhiali. L’illusione individuale e collettiva. La nostra illusione.

 

Molte notti insonni ancora attendono un’alba che tarda ad arrivare. Eppure sono certa che ne usciremo cambiati, oppure questo mondo non avrà nessun’altra opportunità.

Gaza è simbolo, metafora. Una piccola striscia di terra che riflette tutti i destini del mondo, come nell’Aleph di Borges.

Gaza ci mostra ogni lacrima, ogni falsità, ogni ingiustizia, ogni manipolazione. Gaza tortura la coscienza dell’Occidente, ne imbratta con il sangue il biancore, mettendo a nudo  un sistema  che abbiamo voluto vedere equo, tollerante, libero e umano.

Un sacrificio enorme, che forse le anime dei palestinesi hanno scelto prima di scendere su questa Terra. Perché sono certa che da questo orribile magma un giorno Gaza risorgerà insieme a un nuovo umanesimo. Altrimenti saremo perduti, tutti.

Certo è che la notte è scurissima, e l’alba tarda ad arrivare.

. Nel frattempo,  mentre scrivo, un altro bambino   muore.