Rivista bimestrale di cultura e costume Registrazione presso il Tribunale di Roma nr. 170/2012 dell'11/06/2012

Gaza, anima antica

di Rossella Ahmad

Una striscia di terra sulla quale si sta consumando un genocidio davanti agli occhi del mondo. Una violenza incessante, senza tregua. Eppure qualcosa sfugge agli aggressori. Perché la Palestina non è solo un luogo geografico. Vibra e si svolge anche fuori dal tempo.

 

Gaza è luogo fisico ma è anche approdo dello spirito. Chiunque vi sia passato si è sentito benedetto da quell’aura di pura energia che sprigiona incessantemente da questa piccola striscia di terra, indomita ed indomabile dalle ere più antiche della storia. Questo punto sulla mappa del mondo, per descrivere il quale si utilizzano perifrasi che non rendono giustizia alla realtà di ciò che esso è: la più grande prigione a cielo aperto del mondo. È una perifrasi ovviamente: i prigionieri sono titolari di diritti umani, ad esempio. E nelle prigioni non può mancare acqua o cibo.

 

Qui i blocchi inseguono altri blocchi, in ciò che Ilan Pappé definì “laboratorio di genocidio incrementale”. E che più tardi fu trasformato in “officina di sperimentazione militare e sorveglianza ad alta tecnologia”, dopo che Ariel Sharon ebbe smantellato le sue colonie ed ebbe rinchiuso i gazawi in un unico grande campo di concentramento. Questo puntino sul mappamondo, dicevo, è patria di una moltitudine di poeti e letterati, artisti e pittori, scrittrici e musiciste. Probabilmente a causa della sua posizione: il mare, il sogno, la fuga verso l’esterno, il ponte, metafora di libertà che è tale anche quando è chiuso. Ed il mare di Gaza era anch’esso imprigionato. Compresso. Recintato.

Forse a causa delle caratteristiche della sua popolazione, temprata da prove di ogni genere, profughi di Haifa e del Monte Carmelo, profughi due volte, ma per lo più gente di mare, da sempre incastrata tra le onde ed il deserto ed in grado di ricavarne il meglio, dalle une e dall’altro. La memoria collettiva palestinese è racchiusa qui. In questa striscia che ha visto nascere la prima grande ed eroica rivolta palestinese, l’intifada dei bambini delle pietre contro i carri armati ciechi  e ottusi dell’occupazione.
Ed in questa terra hanno vissuto e trovato la morte i figli migliori della Palestina. La poesia più bella, quella di Mue’en Bsyso e delle poetesse esuli, Fetna al-Ghurra, Dunya al-Amal e May Sayigh, ma anche del letterato ed accademico Refaat al-Areer, ucciso da Israele lo scorso dicembre. O della più giovane poetessa gazawi, Hiba Abu Nada, anch’essa perita durante i bombardamenti di ottobre.

“Quante volte il cielo ti è esploso d’odio addosso?
Quante volte sei stato preso da parte?
A quanti massacri sei sopravvissuto?
Ora, raccogli tutte le ferite, rifugiandoti nella morte,
indossando sogni come ali”.

L’arte più rievocativa, quella della pittrice Heba Zagout, uccisa da Israele nello scorso ottobre, o di Malak Mattar, esule a Londra: la topografia della liberazione che si sprigiona attraverso mille sfumature, anche quando procurarsi un colore a Gaza era atto sovversivo e punibile dagli squinternati guardiani del cancello. Il panopticon di Foucault, a cui manca però ogni criterio di idealità e diviene mera topografia dell’oppressione, questa volta.
Ma nulla compendia Gaza più dei versi immortali del più grande poeta palestinese:
“I nemici possono avere la meglio su Gaza. (Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola).
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini. Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei:
non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio. Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere”.